nostro inviato a Madrid
Non è solo una questione di iniziale. Il triplete dellInter passa alla storia come il frutto del fattore M, qui inteso come Moratti, il presidente generoso, Mourinho, lispirato motivatore del gruppo, Milito, il ciclone del gol scatenato per tutta la stagione e su tutti i tre fronti. E forse non è nemmeno un caso che il prossimo inquilino della panchina interista appartenga alla famiglia e abbia un cognome che comincia proprio per M, come Mihajlovic insomma, lassistente di Mancini cui persino Moratti chiese, due anni prima, di traghettare la squadra a Mourinho dopo il colpo di testa del tecnico marchigiano seguito alleliminazione con il Liverpool. Allora è una questione di affinità elettiva, di intesa magica, di chimica personale che si mescola senza modificare mai il risultato finale. Mourinho apparve subito, agli occhi di Massimo Moratti, come Helenio Herrera per papà Angelo: un rivoluzionario del calcio, molto impegnativo come personaggio da gestire, tanto da richiedere allavvocato Peppino Prisco il compito di supplente nelle dichiarazioni del post-partita al fine di evitare polemiche incendiarie e squalifiche.
Massimo Moratti lasciò fare il primo anno, concesse al portoghese di rifilare alla comunità Quaresma per poi intervenire e correggere lindirizzo del mercato con un drizzone epocale. Via Ibrahimovic in cambio di Etoo e milioni, dentro Milito e Thiago Motta, Lucio e Sneijder, raggiunti a gennaio da Pandev e Maliga. «Chi avrebbe perso lo scudetto aggiungendo questo po po di merce ad una delle prime 10 squadre del campionato italiano?» chiese un giorno Claudio Ranieri con un pizzico di sana, sanissima invidia per quel raccolto generoso di energie giunte attraverso il calcio-mercato. Eppure anche il lavoro di Mourinho fu a suo modo determinante. Altrimenti come si spiegherebbe la modifica genetica subita dallInter tra la sfida del girone di qualificazione col Barcellona e quella successiva, in semifinale? Allora, autunno del 2009, una squadra balbuziente, senza personalità, messa sotto in modo netto e chiaro, ad aprile 2010 invece un drappello di eroi capace di resistere per oltre unora, in dieci contro undici, agli assalti disperati dei padroni della Champions passata: stessa squadra, stessi interpreti, stesso tecnico. Di cambiato cera la testa di tutta lInter, nel frattempo diventata una squadra organizzata.
Certo, nessuno dei due, né Moratti né Mourinho, avrebbero immaginato che quel ragazzo argentino, timido e introverso, col ciuffo al vento, poco personaggio e molto calciatore, avrebbe scandito la marcia trionfale con 28 gol, uno più bello dellaltro, uno più irresistibile dellaltro, reso ancora più luccicante da un dribbling in sterzata o da uno stop a seguire. Diego Milito è stato il braccio armato di Mourinho che non lha mai risparmiato senza mai doversene pentire. Persino in qualche minuscolo errore di mira, come sul palo centrato nella sfida di Roma («su quel palo ho perso 10 anni di vita» ammise Totti a fine partita), è stato unico. Ibrahimovic, per esempio e per citare il paragone più facile e scontato, fu capace di sfondoni clamorosi, palloni calciati in tribuna, senza mai centrare la porta. Poi succede che Milito serva a freddo, e senza preavviso, un «non so se resto» che equivale a ricordare le richieste respinte del suo manager per il ritocco dello stipendio, ma non è la fine del mondo e nemmeno del fattore M.
AllInter rischia anche di intrecciarsi con la M di Madrid e quella di Maicon, la freccia nera esibita sul binario di destra. Già perché il Real, rapito il portoghese, ha in animo di sferrare un assalto anche al brasiliano che parte come un treno senza deragliare mai, anzi diventando ala come ai bei tempi quando occorre, o trincea resistente quando cè da rinchiudersi nel fortino di Julio Cesar.
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