Storia di un italiano che sta combattendo nei corpi d'élite curdi contro il Califfato Alex Pineschi, ex alpino di La Spezia, si è arruolato volontario nella Task Force Black Dopo decine di battaglie, oggi è un veterano che addestra le fo

Fausto Biloslavo

da Dakuk (Iraq)

L'ufficiale curdo apre il fuoco contro le postazioni dei cecchini dello Stato islamico. Sul fronte di Hawjia, l'ultima sacca jihadista dopo Mosul, nel nord dell'Iraq, i tiratori scelti delle bandiere nere hanno centrato in testa un Peshmerga, pochi giorni fa. L'italiano Alex Pineschi, in tenuta da combattimento, dà una mano ai soldati curdi della IX brigata, che avvicinano la mitragliatrice pesante montata sul cassone del fuoristrada al vallo, la linea di difesa lunga 36 chilometri a sud di Kirkuk. L'arma si inceppa, ma Alex la sblocca e il Peshmerga spara, con un secco boato, proiettili da 12,7 millimetri verso le linee nemiche.

Il giovane di 33 anni, che si muove in trincea come un incursore, è un volontario con lo spirito del guerriero, che ha scelto di imbracciare le armi contro le bandiere nere al fianco dei curdi partendo nel 2015 da La Spezia. «L'istinto del guerriero penso di averlo sempre avuto dentro. Quando ho visto che lo Stato islamico si espandeva senza pietà, spazzando via tutto quello che trovava sul cammino, ho capito che era la mia battaglia per una giusta causa», racconta in esclusiva al Giornale fra le macerie di un villaggio liberato a ridosso del fronte.

Alex, con barba e ciuffo di capelli ribelle, è stato sotto le armi in Italia come alpino. Poi è passato al settore privato scortando le navi cargo al largo della Somalia per difenderle dai pirati. «Non faceva per me. Volevo unirmi alla lotta contro il male globale delle bandiere nere. È una minaccia non solo per l'Iraq o la Siria, ma anche per noi europei. Ce ne siamo accorti quando hanno colpito a Parigi e Bruxelles», sottolinea il volontario.

Nel 2015 Alex parte con un biglietto di sola andata da Milano per Sulaymaniya, nel nord dell'Iraq e 1000 dollari in tasca. E comincia a bussare alle caserme dei Peshmerga, i combattenti curdi, che sono giustamente sospettosi. «Stavo per finire i soldi ed ero demotivato, triste, in un parco della città, senza un posto dove andare», racconta il guerriero di La Spezia. Alla fine un colonello curdo lo «adotta» portandolo alla sua base e consegnandogli un kalashnikov e cinque caricatori. «Faccio presente che ho esperienza come istruttore, ma voglio andare al fronte», racconta Alex. La IX brigata combatte a Dakuk e l'italiano ha il suo battesimo del fuoco. «In trincea faceva freddo e pioveva. L'Isis avanzava verso di noi per interrare delle trappole esplosive. Ci lanciavano contro razzi Rpg e granate di mortaio». I curdi lo piazzano a una mitragliatrice Pk chiedendogli: «Sai usarla?». Lui risponde di sì, ma non è vero. «Mi sono arrangiato e sparavo nella notte alle ombre che ci tiravano addosso», ricorda il volontario. Per raccontare la sua avventura ci porta davanti a una grande bandiera nera dipinta su una specie di casamatta, dove ha combattuto le prime battaglie liberando l'area.

Dopo quattro mesi di prova, l'italiano viene arruolato come istruttore nella Task Force Black, una leggendaria unità curda di corpi speciali con il simbolo della pantera nera. «Li addestravo, ma quando uscivano e talvolta non tornavano mi si stringeva il cuore - spiega Alex -. Per essere accettato fino in fondo dovevo andare con loro in prima linea».

Il reparto di élite partecipa all'offensiva per liberare la zona sud di Kirkuk. «Daesh (Stato islamico, nda) si stava ritirando lasciandosi alle spalle un reticolo di trappole minate e avvelenando i pozzi d'acqua con il gasolio. Si avanzava a piedi, in agosto, con cinquanta gradi e si moriva di sete», spiega il combattente italiano. A una bretella stradale che bisogna tenere a tutti i costi, l'unità finisce sotto il pesante tiro dei mortai. «Restare fermi significava morire, ma l'ordine era di resistere - ricorda Alex -. Assieme a un mitragliere, un cecchino, un fuciliere e un ladro aggregato sul posto abbiamo attaccato la postazione di mortai nel villaggio di Abu Najim, eliminando la minaccia. Ma poi siamo rimasti bloccati per quattro ore sotto il tiro del resto del gruppo jihadista fino all'arrivo dei rinforzi». Il villaggio liberato è stato ribattezzato Shoresh, rivoluzione, il nome curdo del volontario spezzino.

Nella spietata guerra scatenata dalle bandiere nere, la Task Force Black ha sempre cercato di catturare vivi i miliziani dello Stato islamico. «Non dimenticherò mai quando abbiamo preso prigioniero un jihadista ferito, che aveva la radio con sé - racconta Alex -. Il suo emiro continuava a ordinare: Uccidete senza pietà tutti gli infedeli. Gli abbiamo risposto che il suo uomo era nelle nostre mani, ferito. E lui glaciale via radio: Non mi interessa potete anche sparargli in testa. Altri jihadisti che si sono arresi giuravano di essere stati costretti a combattere sotto la minaccia di rappresaglie contro le loro famiglie. Molti, però, sono motivati e non mollano, fino alla morte».

In guerra le unità combattenti si trasformano in una banda di fratelli. E quando uno cade per gli altri è come perdere una parte di se stessi. Il 30 aprile dello scorso anno l'unità di Alex apre come sempre l'attacco su Basheer, una roccaforte dello Stato islamico. «Il bulldozer aveva il compito di avanzare per primo su una strada disseminata di trappole esplosive. Il mio plotone era dietro, a piedi. Lungo la via i mortai esplodevano attorno alle nostre posizioni e i colpi ci fischiavano vicino alla testa. Non potevamo fermarci, ma solo andare avanti», racconta il volontario italiano. «Un botto mi ha stordito e mi sono ritrovato a terra con la polvere che mi impediva di vedere bene cosa fosse successo - continua Alex -. Il bulldozer era completamente in fiamme colpito da un razzo Rpg. Il nostro autista, un amico, stava bruciando vivo e non potevo fare nulla».

Dopo 17 mesi di guerra, senza mai tirare il fiato, Pineschi torna a casa per le ultime vacanze di Natale. A La Spezia lo attende l'amara sorpresa di essere indagato come reclutatore al soldo di gruppi paramilitari. «Non sono un mercenario. Non ho mai reclutato nessuno per venire a combattere e quando vado in prima linea al fianco dei curdi non prendo un soldo. Lo faccio come volontario perché ci credo - ribatte Alex -. Non chiedo una medaglia, ma certo non mi aspettavo di venire convocato in Procura».

Pineschi si guadagna da vivere come responsabile dell'Etc, il centro di addestramento di Erbil, riconosciuto dal governo curdo, che prepara le forze speciali locali e svolge dei corsi per le agenzie di sicurezza private. Il centro è a una quarantina di minuti di macchina dal capoluogo del Kurdistan, perfettamente organizzato per addestrare anche i nuclei antiterrorismo per operazioni nei centri urbani.

Alex sta preparando un libro su oltre due anni di guerra e quando il Califfato sarà sconfitto vuole tornare a casa e fare un giro in moto, sua grande passione, senza meta. Nel frattempo riceve tante richieste dall'Italia per venire a combattere contro le bandiere nere. «A tutti rispondo che non è possibile - spiega il volontario -. Molti occidentali che cercano gloria e fama si sono dimostrati incompetenti, senza autodisciplina e poco determinati. Avrebbero aiutato meglio la causa restando a casa». In Kurdistan sarebbero arrivati circa 150 volontari stranieri, soprattutto anglosassoni, ma Alex è l'unico italiano considerato dai Peshmerga una specie di leggenda per aver partecipato alle battaglie più dure.

Il 17 ottobre scorso, giorno del suo compleanno, viene mobilitato per aprire la strada alle truppe curde nell'offensiva su Mosul, la «capitale» dello Stato islamico in Iraq. «La linea d'attacco puntava su Qaraqosh, un villaggio cristiano occupato dall'estate 2014 dalle bandiere nere - ricorda Alex -. La colonna al nostro fianco è saltata in aria sulle trappole esplosive. Sentivamo un brivido lungo la schiena a ogni passo. Il nemico non si vedeva, ma lanciava una pioggia di colpi di mortaio. Quando entravamo nei villaggi sembrava l'inferno. Lungo le strade bruciavano gli pneumatici per evitare di venire individuati dalle camere termiche di notte e dai droni di giorno. Il fumo denso e nero saliva verso il cielo oscurando il sole. Dietro a noi avanzavano migliaia di uomini nella storica offensiva su Mosul».

Alla sera Alex si lascia andare davanti a una grigliata improvvisata nel centro di addestramento con la musica a palla dal computer portatile. Anche un guerriero ha un attimo di scoramento, un punto di rottura. L'ultimo scontro è stato quello più duro. Pochi giorni dopo l'attacco su Mosul, le bandiere nere colpiscono a sorpresa, per rappresaglia, a Kirkuk infiltrando 150 combattenti in un attacco suicida multiplo su 22 edifici governativi, scuole e alberghi. «Il nostro obiettivo era una scuola elementare occupata dai terroristi - ricorda lo spezzino -. In cinque si erano barricati nelle classi con munizioni, viveri, medicinali e acqua per giorni». A 200 metri le pantere della Task Force Black sono investite da una valanga di fuoco. Non solo: le bandiere nere hanno annidato cecchini all'esterno per colpire le truppe che cinturano l'area. «Abbiamo lanciato l'assalto con le scale, ma una volta nell'edificio ci siamo trovati in trappola - racconta Alex -, ci sparavano da dentro, a ogni angolo e da fuori. Tutti i terroristi avevano le cinture esplosive. Un incubo». La Task Force Black combatte fino allo stremo per 12 ore. In una classe si è barricato un ceceno dello Stato islamico. «I miei hanno lanciato dentro una bomba a mano e abbiamo fatto irruzione - racconta il volontario italiano -.

Mi è rimasto impresso, che aveva metà della faccia staccata dall'esplosione, ma imbottito di antidolorifici, sparava ancora. Io sono stato fortunato. Gli ultimi due colpi hanno centrato al cuore il secondo uomo dell'unità d'assalto. Era un mio caro amico. Assieme avevamo combattuto le battaglie più dure».

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