Strage di donne nella San Patrignano russa

Guido Mattioni

La vita, in quella sorta di lager fuori Mosca, doveva essere un inferno. Ma la morte è stata peggio. Un incubo, un orrore senza aggettivi. Ma soprattutto senza possibilità di scampo per 45 donne sfortunate: 45 pazienti, poverette che già cercavano, là dentro, di fuggire dalla schiavitù della siringa o della bottiglia; più due infermiere di turno. Con le dieci donne rimaste ferite, alcune in modo molto grave, il bilancio della sciagura scoppiata la scorsa notte è il più pesante del genere, a Mosca, dopo l’incendio dell’Hotel Rossia, in pieno centro città, che nel 1977 costò la vita a 52 persone e ne lasciò 50 gravemente ustionate.
A uccidere la scorsa notte è stato il fumo, scaturito da un incendio che con tutta probabilità è di origine dolosa. Un fumo acre, carico di monossido di carbonio, provocato dalla combustione di quei pannelli in plastica e pavimenti in linoleum - così facilmente combustibili - che non avrebbero dovuto esserci in quell’istituto di recupero per tossicodipendenti e alcolisti, alla periferia sud occidentale di Mosca.
Per loro, la maggioranza delle pazienti, chiuse a chiave in stanze anguste con finestre sbarrate, non c’è stata possibilità di fuga. Sì, certo, hanno rotto i vetri ferendosi e poi hanno tentato di allargare quei tubi di metallo con la forza della disperazione e con quella poca - fisica - rimasta nelle loro braccia scheletriche e piene di buchi. Invano. Le loro grida si sono unite a quelle di altre donne, in quel momento libere di circolare nei corridoi, che dopo una corsa affannosa, in mezzo a un buio reso ancor più fitto dal fumo fitto e appiccicoso, hanno trovato bloccata l’unica uscita di sicurezza.
Alla fine, mentre i vigili del fuoco stavano ormai ripiegando le manichette dell’acqua e mentre all’esterno della clinica continuavano ad arrivare in lacrime i parenti delle “recluse”, al pesante numero di vittime si sono dovute aggiungere le dieci donne ferite e ricoverate in ospedale, alcune peraltro in gravissime condizioni. Resta invece imprecisato, anche se sarebbe superiore alle 150 unità, il numero di persone fatte evacuare sane e salve dalle squadre di soccorso. Squadre che, a detta delle autorità, sarebbero intervenute con assoluta tempestività. «Il ministero per le Situazioni di emergenza - ha dichiarato il portavoce Yevgeny Bobylev, tanto per mettere le mani avanti - ha ricevuto l’allarme per l’incendio all’1.42 e i nostri uomini erano sul posto all’1.48».
Di certo era l’1.40 di notte (23.40 ora italiana), quando con tutta probabilità una mano criminale ha versato del liquido infiammabile all’interno di un armadio delle cucine, al secondo piano di questa fatiscente palazzina di mattoni rossi degli anni Sessanta che accoglie l’ospedale numero 17 di Mosca, divenuto dal 1982 la più grande clinica per il recupero di tossicodipendenti e alcolizzati del Paese. Una mano - forse quella di una ricoverata che potrebbe aver agito per vendetta verso la direzione per una dose negata - che dopo aver spanto il combustibile vi ha lasciato cadere dentro un fiammifero acceso.
Ma se il fuoco, il fumo, le sbarre e l’assenza delle più elementari norme di sicurezza - oltre al gesto criminale, ovviamente - hanno avuto la loro parte di colpa nel trasformare quei corridoi in una bara senza scampo, sul banco degli imputati finiranno sicuramente gli inservienti che al momento erano presenti nell’istituto. Anziché precipitarsi ad aprire le camere di quelle disgraziate e a rendere agibile l’uscita di sicurezza sono fuggiti nella notte.

Lasciando perdipiù dietro di sé, in quell’inferno, anche le due loro colleghe. «Il comportamento del personale della clinica - ha commentato amaro Alexander Chupriyan, vice ministro alle Emergenze - è stato scorretto. Non hanno evacuato le persone dall’edificio, ma hanno salvato se stessi».

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