Uno strappo che fa male a Rifondazione

La Fiom ha 350mila iscritti su 5 milioni e mezzo della casa madre Cgil, ma per i metalmeccanici vale il principio espresso da Enrico Cuccia per le azioni: «Si pesano e non si contano». E i metallurgici della Fiom pesano moltissimo sul sindacato (dei pensionati e non più dei lavoratori attivi) e sulla sinistra (del terziario avanzato e non più della classe operaia). Il «no» delle tute blu all’accordo su welfare e pensioni siglato dal governo Prodi con Cgil, Cisl e Uil è un terremoto che mina le fondamenta della «Cosa Rossa» e costringe Rifondazione e soci a ripensare il proprio ruolo nel governo.
La Fiom non è come qualcuno pensa - a destra e a sinistra - un residuato archeologico del sindacalismo, ma un organismo che rappresenta, insieme a Fim e Uilm, i lavoratori di quella che un tempo veniva chiamata «industria pesante», cardine dello sviluppo di qualsiasi Paese industrializzato. Settori come difesa, aerospazio, automobili, moto, cantieristica, energia, elettrodomestici, ferrovie, telecomunicazioni, sono la differenza che passa tra un’economia avanzata e un Paese sottosviluppato. Dunque, la questione non va presa sottogamba e non si può confinare a mera disputa sindacale. Per questo vien da chiedersi se il no della Fiom al protocollo sul welfare abbia solo un valore sindacale e non forse un significato largamente politico.
Parliamoci chiaro: per due anni di scalino e per uno scalone non si rischia di far cadere il primo vero governo «amico» dell’ala postcomunista del sindacato. In ballo c’è ben altro, la filosofia stessa della sinistra italiana alle prese con la difficile operazione di coniugare la missione della lotta con il dovere del governo.
Ecco perché lo strappo dei metallurgici fa male soprattutto a Rifondazione. Il partito dell’ex segretario della Cgil Fausto Bertinotti, è stato scavalcato a sinistra dal sindacato di Gianni Rinaldini che, dentro il Prc, ha una sua espressione «dura e pura» in Giorgio Cremaschi. Siamo di fronte a dinamiche che partono dal sindacato ma cammin facendo diventano tutte politiche.
Rifondazione, che durante la lunga vicenda della riforma previdenziale ha regolarmente scavalcato a sinistra la Cgil di Guglielmo Epifani - il quale non a caso chiedeva al partito di Franco Giordano di fare un passo indietro - oggi si trova nella paradossale condizione in cui si trovava Epifani qualche mese fa. La Cgil vede lo spettro di una scissione della Fiom e deve correre ai ripari, Rifondazione deve recuperare il suo terreno naturale della lotta sociale. È una trappola dalla quale non è facile uscire. Si strilla, si agitano le braccia, si fa rumore, ma alla fine qualcosa bisogna fare perché in politica le difficoltà si traducono prima o poi in perdita di voti. E Rifondazione questo problema lo sente. Gli ultimi sondaggi parlano chiaro, la sinistra radicale da quando è al governo registra un calo netto di consensi e in molti si chiedono se il gioco alla lunga valga la candela. Le componenti più radicali del partito di Bertinotti non hanno dubbi: ieri il gruppo dell’Ernesto ha detto chiaramente che dal governo bisogna uscire in fretta. Non si tratta di una semplice posizione di bandiera o di un ballon d’essai per saggiare gli equilibri interni. Più passa il tempo, più emerge l’inconciliabilità di una piattaforma politica idealmente rivoluzionaria con la pratica quotidiana di governo.
Che fare allora? Non si può stare fermi, né può bastare la strategia del dissenso verbale. Serve altro. Cosa? Prima di tutto una modifica ulteriore della legge Biagi, il trofeo da esporre di fronte all’elettorato deluso, poi una ulteriore limitazione dei contratti a termine e infine la tassazione delle rendite finanziarie per colpire «il capitalismo delle locuste». È il programma minimo del massimalismo ideologico. Basterà a placare i marosi e salvare il barcollante esecutivo del Professore di Bologna? Prodi aveva detto che il no della Fiom era largamente atteso, ma se fosse un evento così scontato, perché tanta agitazione? Forse quei trecentocinquantamila iscritti davvero si pesano e non si contano? Forse il Professore teme i fischi che qualche mese fa si levarono a Mirafiori contro i tre segretari di Cgil, Cisl e Uil? La sonora protesta fu il primo avviso di burrasca, i giornali riscoprirono l’esistenza della classe operaia, gli intellettuali vergarono e decretarono la distanza tra i partiti della sinistra e la massa. Le contraddizioni non sono mai state composte, il varo del Partito Democratico ha aumentato la confusione a sinistra e ora il «no» della Fiom è la tempesta in arrivo. Per tutti.

Ecco perché Prodi sarà costretto a cedere anche stavolta qualcosa agli alleati in rivolta e la Finanziaria sarà il banchetto assai poco festoso nel quale si cercherà una tregua. Solo che a forza di spolpare, del prosciutto non rimarrà che l’osso.
Mario Sechi

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