Roma - Contributivo per tutti, oppure «quota 100» nel giro di pochi anni e età minima di pensionamento anche per chi ha maturato 40 anni di contributi. Il governo di Mario Monti non è ancora nato, ma nella futura maggioranza già circolano possibili interventi.
Sulla previdenza si sta facendo strada l’ipotesi dell’uscita flessibile che potrebbe oscillare tra un minimo di 62 0 63 e un massimo di 70 anni. Una possibilità di scelta in più per il lavoratore (quando ritirarsi) in cambio del passaggio definitivo al sistema contributivo, cioè a un calcolo della pensione meno vantaggioso. Le ipotesi sono diverse. Una, più che altro simbolica, si applicherebbe «pro rata »,cioè a valere dall’entrata in vigore, presumibilmente nel 2013, il calcolo contributivo anche per chi è stato graziato dalla riforma Dini, cioè chi avrebbe la pensione totalmente retributiva. Misura simbolica perché sono rimasti pochi lavoratori in questa condizione e gli anni a cui si applicherebbe il calcolo, meno generoso, sono molto limitati. L’ipotesi estrema (e meno probabile) è quella che vedrebbe applicare il contributivo a tutte le pensioni e per tutti gli anni di lavoro. In questo caso la perdita potrebbe arrivare da un massimo del 15-20%dell’assegno a percentuali inferiori man mano che diminuiscono gli anni di pensione retributiva maturata. La versione più light è quella targata Pd, che prevede l’uscita flessibile con disincentivi e bonus.
Per il resto, il menu sulla previdenza resta quello elaborato dalla Ragioneria dello Stato per il governo Berlusconi. Una stretta sulle pensioni di vecchiaia anticipando al 2020 dal 2026 il l’uscita sale per tutti a 67 anni. Tra quelli più probabili l’anticipo al 2012 di «quota 97» (la somma dell’anzianità contributiva e dell’età) per arrivare a «quota 100» dal 2015. Se al ministero del Welfare dovesse arrivare Carlo dell’Aringa, questa sarebbe la strada che il professore della Cattolica preferirebbe.
Sicuramente, per ogni intervento, Monti dovrà superare i no di qualche pezzo della maggioranza. Sulle pensioni c’è l’indisponibilità a fare cassa del Partito democratico, o almeno di parte del Pd. A partire da Cesare Damiano, ex ministro del Welfare del governo Prodi. «Sono contrario al fatto che si metta di nuovo mano alle pensioni che sono già state abbondantemente toccate dal governo Berlusconi. Vorrei che prima si contabilizzassero i miliardi di risparmi realizzati fin qui e si puntasse semmai su patrimoni e rendite». Damiano è stato promotore della proposta Pd per l’uscita flessibile tra 62 e 70 anni. «Questo consente anche a chi ha il retributivo di entrare nel sistema flessibile. Se questo comporta un anticipo nell’uscita verso la pensione è chiaro che il lavoratore dovrà avere un disincentivo, che potrebbe essere anche l’applicazione del pro rata.Ma deve essere chiaro che da questo meccanismo devono essere esclusi i lavoratori che raggiungono i 40 anni di contributi e i lavori usuranti, per i quali devono valere le vecchie regole». Riferimento non casuale, visto che tra le ipotesi c’è anche quella di vincolare le pensioni con 40 anni di contributi, che oggi si possono ottenere a qualunque età, a un requisito anagrafico, ad esempio 62 anni.
Il capitolo previdenza è solo uno degli scogli del futuro programma. C’è la patrimoniale e l’Ici sulla prima casa,che non piace al Pdl, ma che tutti danno per scontata, tanto che lo stesso governo in carica ha stimato le possibili entrate: 3,5 miliardi di euro. Non meno dolorosa l’altra misura in stile Bce: il taglio degli stipendi degli statali.
«Ma sarebbe meglio spiega Francesco Verbaro, docente della Scuola di pubblica amministrazione - puntare a ridurre il numero dei dipendenti pubblici, abolendo la finestra mobile», e mandando in pensione gli statali con 35 anni di contributi. Suona come un paradosso, ma dal punto di vista della contabilità pubblica non lo è: un pensionato pubblico costa il 30% in meno di un dipendente al lavoro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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