Letteralmente significa quartiere malfamato e invivibile, nell'antica Roma delimitato nel vasto perimetro tra Quirinale, Viminale, Celio e Appio. Col tempo «Suburra» è sinonimo di bolgia infernale di una metropoli corrotta a tutti i livelli, raccontata da cinema e letteratura pescando sia dalla storia che dalla cronaca. Così il film Suburra uscito nel 2015 e diretto da Stefano Sollima si è allargato nella nuova serie tv, prima produzione italiana di Netflix, che ha debuttato appena due giorni fa. Come fu per Romanzo criminale - due stagioni di fiction assai più belle del film - alle spalle c'è il romanzo dello stesso autore, Giancarlo De Cataldo. Qui da noi vendono i gialli, meglio quelli in cui la trama si intreccia con la politica e la corruzione, e offrono spunto per ottime versioni cinematografiche.
Da sostenitori e amanti del cinema di genere, abbiamo aspettato con trepidazione tale evento tv sostenuto da una martellante campagna pubblicitaria, a conferma dello spazio crescente che Netflix sta erodendo ai canali tradizionali. E i primi episodi di Suburra, diretti da Michele Placido, ci soddisfano, non solo per la trama, per il sapiente ricorso al classico montaggio alternato dove le vicende si complicano, per l'ottimo lavoro sugli attori trasformati in maschere grottesche. Raro e originale il modo e lo stile con cui è filmata Roma, privata dell'elemento turistico o del ricorso, inevitabile, a quegli elementi classici riconoscibili in tutto il mondo.
La Roma di Suburra è invece una città iperrealista, le cui inquadrature sembrano prelevate da un quadro di Edward Hopper. Una Roma dove i personaggi criminali agiscono indisturbati cancellando ogni memoria del passato. In alcune sequenze scenari e sfondi sono deserti, non è più la città del caos e del traffico, gli ambienti gelidi, impersonali, citano più volte il pittore americano e i «non luoghi» di Marc Augé: non siamo però negli anni '90 ma in una specie di non tempo metafisico, come se davvero Roma fosse stata da sempre la sintesi dei gironi danteschi in cui convivono piccola malavita e grandi organizzazioni criminali, chiesa e mafia, politica e corruzione, sesso e potere. Patrizi e plebei, con l'aggiunta perfino degli zingari, tutti rigorosamente coatti.
Qualcuno potrà obiettare che non è niente di nuovo e i temi sempre gli stessi; d'accordo, però nel cinema di genere, di cui noi italiani siamo stati eccelsi produttori, è necessario ritrovare meccanismi e ingredienti familiari. Oppure che si tratta dell'ennesimo cattivo spot alle città italiane; dopo la Napoli di Gomorra, una Roma ingovernabile con, sullo sfondo, un sindaco inesistente (chissà a chi avranno pensato) e dimissionario.
Senza prendere tutto per vero, sappiamo però che le migliori fiction si alimentano nella realtà.Detto di regia e attori, menzione speciale per la sceneggiatura di Carlo Borini e dello stesso De Cataldo e per la fotografia di Arnaldo Catinari.
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