«Linapolina» è un titolo curioso, quasi un'anagramma con cui Lina Sastri, ambasciatrice teatrale della veracità, ha battezzato il suo nuovo spettacolo che sta riempiendo le sale della Penisola. Lo scorso marzo al teatro Quirino di Roma, in un tripudio di 700 spettatori a sera, sono venuti ad applaudirla anche i coniugi Napolitano, il presidente del Senato Pietro Grasso e signora, e molti altri personaggi dell'Italia che conta. «Linapolina», che martedì sbarca al Manzoni, è una crasi inventata dall'artista che indica la perfetta fusione tra Lina e la sua Napoli raccontata attraverso la canzone classica e la prosa.
Un'icona che evidentemente tira ancora tanto. Non teme il clichè?
«Lo temo eccome, ma anche stavolta aggiungo qualcosa alla passione e alla voglia di confrontarmi con la nostra grande tradizione. Le stanze del cuore, il fil rouge che tiene insieme il recital, sono un viaggio emozionale che passa da meravigliose canzoni come I' te vurria vasà o Reginella a racconti e poesie (in italiano) che parlano di bellezza, dolore e miseria. Più che mai c'è la fusione tra le mie due anime, il teatro e la musica».
E infatti, ancora una volta, sarà un concerto «teatrale».
«Sì, ma rispetto alle mie precenti esperienze - come Cuore mio, un viaggio nella musica e nella pittura in sette quadri, oppure Corpo celeste dedicato alla Ortese - stavolta evito le citazioni. Tutto quello che recito sul palco, canzoni a parte, è scritto da me. È una cantata poetica in musica che inizia con un racconto dedicato a una sorda (di cuore) e termina con Lianna, un inno al coraggio».
Si considera più attrice o più cantante?
«Ovviamente attrice. E più che cantante, direi musicista e anche regista visto che nel mio spettacolo curo tutto, dalle luci agli arrangiamenti».
Linapolina come lo ha strutturato?
«È uno spettacolo in due tempi, il primo più lirico e melodico, il secondo più fisico e popolare. In scena con me ci sono otto musicisti e, nella parte cantata, spazio in tutto il repertorio di una lingua meravigliosa, quella napoletana, da Di Giacomo a Faiello. Ovviamente con tutte le contaminazioni che amo, dalla musica gitana al tango al bolero».
L'amore sviscerato per Napoli, che esplode nei suoi spettacoli, è tipico di chi non ci vive...
«E infatti io vivo a Roma, ma quando ci torno finalmente mi sento a casa. Lo dico anche a rischio di sembrare naif perchè in un'epoca globalizzata dove tutti camminano soli, tuffarsi nelle radici è francamente l'ultimo dei pericoli. E se i miei spettacoli riempiono le sale nonostante io rifugga la televisione, vuol dire che il messaggio è forte. Ma nel mio spettacolo c'è anche una poesia che dice ti odio città matrigna...».
E con Milano che rapporto ha? Anche qui riempie sempre i teatri.
«Tocco ferro... comunque è una città che mi piace, anche se ci vengo solo per lavoro. Anche lei ha avuto grandi cantori come Gaber o Iannacci ma forse i giovani se ne sono scordati».
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