Sul Piano regolatore decide tutto il Comune

(...) Il problema richiede soluzioni concrete ed efficienti, idonee alle sue particolarissime situazioni. Non lo sono né le vuote affermazioni di principio che accompagnano nelle ricorrenti dichiarazioni politiche la citazione del binomio Roma capitale, né le ricerche di ingegneria istituzionale intese ad una semplicistica autonomia amministrativa del Comune di Roma. Il problema di una nuova organizzazione amministrativa si pone certamente, ma non solo per l’attuale Comune, i cui confini sono divenuti ormai un riferimento puramente convenzionale, privo di reali significati per i problemi inscindibili di un territorio ben più vasto. Nello stesso tempo, l’accentramento di poteri sempre più numerosi e complessi dell’attuale Comune nel Campidoglio, richiede che i compiti dei municipi, eventualmente ridotti nel numero (10-12), entro confini più chiari e rispondenti alla morfologia urbana, siano potenziati, iniziandone la ridistribuzione secondo il principio di sussidiarietà, cioè cominciando la selezione da questi ultimi.
Inoltre, prima di affidare i processi di gestione del territorio ad ambiti dotati di autonomia, come sarebbe il Comune di Roma, si imporrebbe che le linee fondamentali di assetto fossero definite attraverso strumenti di pianificazione territoriale che, invece, al momento esistono al solo livello di studio, senza alcun effetto giuridico. Togliere il riferimento regionale, così come anche quello provinciale, per coordinare le politiche di assetto del territorio dei vari comuni, ai quali, non si dimentichi, l’articolo V della Costituzione attribuisce nuove, ampie - pur se indefinite - autonomie, non potrà arrecare gravi conseguenze soltanto per i comuni minori della provincia, ma per la stessa Roma, che non saprebbe più se, quanto e come potrà seguitare a risolvere propri problemi nel territorio circostante, nel quale invece essi si trasformerebbero spesso in risorse. Per quanto riguarda il terzo ordine di problemi, la pratica attuabilità delle nuove procedure, l’esperienza dimostra, ormai largamente, che le difficoltà non sono tanto nel numero e nelle complicazioni delle «regole», quanto nel modo in cui esse sono gestite dalle strutture burocratiche, operative e di controllo. Al riguardo, una serie di procedure inventate negli ultimi anni si sono rivelate, se possibile, più incerte e defatiganti delle precedenti. In particolare, in esse, piuttosto improvvisate ed applicate senza criteri preordinati, hanno avuto buon gioco ad inserirsi le consuete forme di clientelismo, favorite dalla attenuazione della pubblicità e delle precedenti forme di garanzie e trasparenza. Guai se le nuove procedure consistessero, in pratica, nell’estensione dello strumento dell’«accordo di programma» - e relative conferenze di servizi - rivelatosi, in definitiva, utile per aumentare l’arbitrarietà delle scelte politiche, ma non per accelerare i tempi.
Dell’insieme dei nuovi meccanismi procedurali si continuerebbe ad approfittare anche per ridurre progressivamente e tacitamente tutti gli organi tecnici consultivi, quali le commissioni urbanistiche comunali, il comitato tecnico regionale.

Nonostante che la nomina dei membri di tali consessi, evidentemente di competenza degli organi politici ma, nel tempo, sempre più soggetta a lottizzazioni partitiche, non avesse più la mediazione di designazioni attraverso terne proposte da organismi accademici, culturali, professionali, la natura specialistica e non burocratica dei consessi stessi, sempre solo consultivi, forniva ai propri pareri quelle garanzie di obiettività e di competenza che gli organi burocratici, più sensibili alle pressioni politiche, non possono sempre assicurare. Nel complesso, sembra che si proceda ovunque verso forme di deregulation sempre più spinte che non gioveranno certamente alla correttezza, né all’efficienza, della politica urbanistica.
(Urbanista)

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