Si progettano sedie, tavoli, lampade, stoviglie, manufatti tangibili. Ma c'è anche un design digitale e immateriale, dell'informazione e comunicazione. Per intenderci, quello che una volta si chiamava grafica e che oggi va oltre la grafica pura, occupandosi di siti web, mondi e interfacce digitali: del telefonino esemplarmente.
Ma quando un sito può dirsi «di design»? La risposta: quando è efficace. Almeno secondo Matteo Marcato, docente allo IED di Torino e project manager di «Quattrolinee», società specializzata nella valorizzazione dei marchi (nel portfolio, tra gli altri, l'archistar Carlo Ratti e Pininfarina). «In questi ultimi due anni - spiega Marcato - ci siamo trovati a fare la spesa, prenotare servizi, acquistare beni online. Se abbiamo mantenuto alcune di queste abitudini è perché con molta probabilità il portale era fatto bene, se invece ci siamo arrabbiati di fronte a uno schermo è perché a monte mancava la cura dell'esperienza digitale e del disegno delle interfacce, in sintesi: mancava un progetto».
L'Italia è stata anche nel design della comunicazione, basta pensare a una firma come quella di Massimo Vignelli. Oggi, però, «il nostro Paese - continua Marcato - si è arroccato su una difesa incondizionata del bello, che troppo spesso coincide con la mancanza di sperimentazione. È fisiologico che i linguaggi visivi mutino nel tempo, bisogna però anche avere il coraggio di sovvertire le tradizioni, cosa che altrove è normale, mentre da noi è tabù».
E così, capita che anche aziende e istituzioni blasonate ignorino l'importanza di una comunicazione d'ultima generazione, da qui loghi e siti web incuranti dei codici visivi.
Eppure sono loro la faccia di enti o aziende. Un esempio di rottura cok poassato? «Pfizer, per esmpio ha ritenuto opportuno abbandonare l'ovale blu del logo perché non voleva più essere associata al prodotto più noto, il Viagra, cercava una comunicazione diversa».
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