Sulla guerra a Kabul gli americani ora bocciano Obama

L’Afghanistan inguaia un presidente, anzi, due. Il primo è, come noto, Hamid Karzai, costretto ad accettare il secondo turno dopo i brogli scoperti dalla commissione elettorale. Il secondo è Barack Obama ed è, in parte, una sorpresa, perché nei pasticci si è ficcato da solo e ora si trova costretto ad affrontare un’opinione pubblica lacerata, che non concorda nemmeno più sugli scopi e le cui esitazioni stanno contagiando il Congresso.
E dire che proprio l’Afghanistan era stato il suo cavallo di battaglia in campagna elettorale, tra i pochi temi di politica estera affrontati nel duello con McCain, e nei primi mesi di presidenza, quando prometteva un’azione decisa e, soprattutto, definitiva per evitare di commettere gli stessi errori commessi in Irak e finire, per davvero, la guerra iniziata nell’autunno del 2001.
Ma da marzo a oggi il suo slancio si è esaurito. Obama ha iniziato a chiedersi quale fosse la via giusta. Ha chiesto rapporti su rapporti. Li ha ricevuti, li ha letti, ma ha continuato a rinviare ogni decisione, oscillando tra le pressioni dei militari e le cautele dell’ala liberal della sua Amministrazione. E oggi scopre che l’America non è più disposta a seguirlo, tanto è divisa.
Secondo l’ultimo sondaggio della Washington Post il 47% degli statunitensi è favorevole all’invio dei 40mila soldati supplementari chiesto dal Pentagono, ma il 49% è fermamente contrario, mentre crolla la fiducia nelle sue capacità di gestire una crisi che la maggior parte della gente non capisce. In aprile il 63% degli americani pensava che Obama sarebbe riuscito a risolvere il problema afghano, oggi gli ottimisti sono scesi al 45%, con un crollo di dieci punti nell’ultimo mese.
La vicenda dei brogli non è piaciuta ai cittadini statunitensi, che però dimostrano di avere le idee alquanto confuse. Non vogliono che altri soldati rischino la vita laggiù, diffidano dell’«imbroglione» Karzai, ma, al contempo, ritengono indispensabile che Washington impedisca ad Al Qaida di ricostituire le basi terroristiche e ai talebani di tornare al potere a Kabul.
Si lamentano, criticano, però non sanno proporre rimedi, che peraltro non spettano a loro. Da sempre nella storia americana è in frangenti come questi che i grandi presidenti hanno dimostrato le loro capacità di leadership. Ma Obama è in grado di imprimere una rotta decisa e di ricompattare il Paese al suo seguito?
La domanda non è polemica, né oziosa, ma riflette perplessità condivise anche a sinistra. Il New York Times, in un editoriale, ha criticato la pessima gestione delle elezioni da parte delle autorità americane, che sono apparse dapprima sprovvedute, poi compiacenti con Karzai, salvo, negli ultimi giorni, esercitare pressioni fortissime per indurlo a trovare un accordo con Abdullah o ad accettare il secondo turno. Il quotidiano della Grande Mela sollecita una strategia politica e sociale, oltre a quella militare, e si chiede dove sia sparito l’inviato speciale Richald Holbrooke.
La Washington Post, invece, evidenza come oggi Obama rischi di sbagliare qualunque decisione prenda: se propone l’invio delle truppe scontenta una parte della base democratica, se, al contrario, opta per lo statu quo irrita il Partito repubblicano e si espone all’accusa di non difendere gli interessi americani.
E il presidente che fa? Tace e manda messaggi contraddittori. Fino a due giorni fa i suoi consulenti assicuravano che sarebbero state necessarie diverse settimane prima che venisse presa la decisione sulle truppe.

Ieri, però, il portavoce Gibbs «non ha escluso», l’annuncio della nuova strategia prima del ballottaggio del 7 novembre, dunque senza nemmeno conoscere il nome del nuovo presidente. Amletico, come sempre. Non è un buon segnale.

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