Sulla «Scala di seta» la musica si sposa col teatro

PesaroQuando uno spettacolo ha successo, rimane nella memoria per il particolare che l’ha reso indimenticabile. La Scala di seta che lunedì a Pesaro ha colto uno dei più genuini ed entusiasmanti successi nella storia del «Rossini Opera Festival», rimarrà memorabile per la pianta della sua scenografia. Non per la scenografia vera e propria, e cioè per il mini locale in cui si svolge l’azione (qui trasportata dall’800 di Rossini ai giorni nostri); ma per la sua pianta in scala reale. Che tracciata con segni bianchi sul pavimento nero del palcoscenico, come sulla carta millimetrata di un architetto, e riflessa da un grande specchio inclinato verso la platea, in modo che il pubblico potesse seguire l’azione che vi si svolgeva non solo dalla prospettiva frontale, ma anche dall’alto, diventava essa stessa scenografia. Invenzione incantevole, per originalità, gusto e freschezza espressiva, creata da quel Damiano Michieletto che - già premiato due anni fa per la regia d’una sorprendente Gazza ladra - ha realizzato col mezzo più semplice il compito più arduo. Tradurre la grande musica in grande teatro.
Al pubblico, infatti, questa non è parsa solo una deliziosa trovata. Vi ha subito riconosciuto l’originalissima «sintesi grafica» dell’autentico spirito rossiniano. Grazie alla pianta (realizzata da Paolo Fantin) l’intreccio della farsa diventava subito comprensibile; l’inseguirsi e lo spiarsi dei personaggi da un ambiente all’altro, un intrigante gioco teatrale; il ritmo del racconto una trascinante «avventura» scenica. E il tutto era condotto con una freschezza, una coerenza, una levità tali da incarnare in termini teatrali proprio la natura della musica di Rossini. Bisognava vedere la spumeggiante naturalezza con cui i cantanti vi conducevano l’azione: montando la scena a vista col disporre, durante la sinfonia, i mobili autentici sui loro «segni» grafici; fingendo di aprire e chiudere porte e finestre invisibili con tempi indiavolati da teatro di Feydeau; inserendo nel contesto ottocentesco oggetti che, pur modernissimi - cuffiette iPod, ferri da stiro a vapore, pesetti da fitness - apparivano «rossininani». I luoghi dell’intrigo diventavano luoghi musicali; il movimento dei cantanti era il movimento della musica. Una regia nata dalle note e che, attraverso il teatro, alle note riportava. Cosa si può chiedere di più?
Al centro di questa magica creazione, s’inserivano a meraviglia cantanti tanto scatenati e disinvolti da meritare la qualifica di commedianti di prim’ordine. Si potrà sottilizzare sulla saldezza d’intonazione di alcuni o sulla debolezza del volume di altri; ma, a fronte del meraviglioso risultato complessivo, sarebbe una pedante osservazione. Condotti dalla puntuale direzione d’orchestra di Claudio Scimone si sono dunque divertiti e hanno divertito soprattutto Carlo Lepore, nel bianco doppiopetto d’un amante trombone; Olga Peretyatko, deliziosa e sensuale protagonista; José Manuel Zapata, marito imbranato e farfuglione. Meritato successo personale per Paolo Bordogna, bravissimo nel caratterizzare, vocalmente e scenicamente, il suo servitore invadente e impiccione. Alla fine, il pubblico ha osannato tutto il cast, e tributato un’ovazione a Michieletto, assieme allo scenografo Fantin e al creatore delle luci Carletti.
Ultima osservazione.

Al centro di questa Scala di seta c’era - come anche nell’inaugurale Zelmira - un grande specchio inclinato. Ma mentre questo funzionava al servizio della musica, quello sembrava lavorargli contro. È la differenza che passa fra una vera regia lirica e una regia antimusicale.

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