Il summit a Roma è un «contentino» al nostro Paese

Marcello Foa

Era il Cairo - e non Roma - la sede scelta dal governo americano per ospitare la conferenza sul Libano. E, in alternativa, Amman o Riad. Washington ha cercato fino all’ultimo di convincere uno dei Paesi arabi amici a ospitare l’incontro. Lo scopo? Dimostrare con un gesto di grande valenza simbolica che i Paesi arabi moderati sono schierati con gli Stati Uniti in contrapposizione al governo che tutti considerano il mandante degli Hezbollah: l’Iran del presidente Ahmadinejad. Ma benché Egitto, Giordania e Arabia Saudita siano molto preoccupati della capacità di destabilizzazione degli ayatollah, in questi frangenti non possono avallare una decisione che, come ha spiegato Martin Indyck, ex ambasciatore americano a Gerusalemme, «li avrebbe identificati... come i principali partner di Bush, in un momento in cui proprio... gli Hezbollah li accusano di coprire tacitamente l’offensiva... militare israeliana».
Troppo scioccanti le immagini delle decine di migliaia di civili in fuga da Beirut, troppo intensa l’emozione per le continue, tragiche notizie dei civili uccisi dalle bombe israeliane: basta poco per scatenare reazioni incontrollate dell’opinione pubblica araba. La Rice ha provato a insistere, ma poi si è resa conto dei rischi e ha cominciato a cercare un’alternativa, dando la priorità ai Paesi affacciati sul Mediterraneo. La Spagna, dopo la gaffe della kefiah indossata da Zapatero, non è stata nemmeno presa in considerazione; la Grecia idem per il suo scarso profilo diplomatico; la Turchia è troppo vicina al teatro di guerra, meglio lasciarla fuori. E allora non restavano che due opzioni: la Francia e l’Italia. Ma Parigi, nonostante i rapporti con gli Stati Uniti siano notevolmente migliorati, non è certo nel cuore di Bush, e comunque è destinata a giocare un ruolo di prestigio nella ricerca di una soluzione del conflitto: secondo indiscrezioni di fonte Onu, proprio alla Francia spetterà il comando della Forza di sicurezza che dovrebbe essere dispiegata in Libano.
Alla fine sul carnet del segretario di Stato è rimasta l’Italia, scelta per esclusione e, in parte, per calcolo politico. Prodi è in buoni rapporti con molti leader mediorientali, e i suoi tentativi di stabilire un dialogo con la Siria e l’Iran durante il vertice del G8 a San Pietroburgo lo hanno accreditato come uno dei capi di governo europei più comprensivo nei confronti del mondo arabo. E ora gli Usa hanno interesse che a ospitare una conferenza non sia un leader europeo appiattito sulle loro posizioni, perlomeno in apparenza. Già, perché in realtà l’ex premier dell’Unione è più filoamericano di quanto lasci intendere pubblicamente. Qualche settimana fa l’amministrazione statunitense gli ha chiesto di confermare il calendario di ritiro delle truppe italiane predisposto dal governo Berlusconi. Lui ha alzato un po’ la voce, tanto per tenere a bada la sinistra radicale, ma poi si è adeguato. Pochi giorni fa Bush gli ha chiesto di rimanere in Afghanistan e di alzare le regole di ingaggio della nostra missione al livello «combat». E anche questa volta il presidente del Consiglio ha detto sì.
Meritava un premio, se non altro di incoraggiamento, Romano Prodi.

E con lui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, con la sua scelta filoatlantica, ha legittimato le decisioni del governo. E il premio è arrivato: mercoledì mattina sarà Roma ad accogliere i grandi della Terra, riuniti nel tentativo di ridare speranza al Libano e sicurezza a Israele.
marcello.foa@ilgiornale.it

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