Chi non conosce Giampaolo Ganzer può faticare ad immaginare come possa un uomo - e soprattutto un ufficiale dell’Arma - affrontare una simile divisione in due di sè stesso, della sua storia, del suo ruolo. Perché esistono due Ganzer. Uno è il carabiniere che da trent’anni indaga contro il crimine, che collabora con le Procure di tutta Italia, che dirige gigantesche operazioni contro delinquenti di ogni genere: dai terroristi ai mafiosi, e da ultimo contro la zona grigia dove si incrociano affari, politica, corruzione. L’altro è l’imputato Ganzer, inquisito, processato, condannato per un reato - il traffico di droga - che più infamante non si può. Al suo posto, un altro sarebbe rimasto schiacciato tra queste due incarnazioni della propria vita. Ma Ganzer è - qualunque opinione si possa avere della sua vicenda professionale e processuale - un uomo di uno spessore inconsueto. E anche oggi, di fronte ad una sentenza che lo accusa testualmente di avere «tradito» lo Stato, chi ha potuto parlargli lo ha trovato straordinariamente calmo. «Non ho ancora visto le motivazioni - ha detto Ganzer, che era nel suo ufficio nella caserma romana di via Ponte Salario - non mi sono ancora arrivate. Ne so, dunque, soltanto quello che ho letto sulle agenzie di stampa. Finora, direi che non aggiungono granchè a quello che era stato detto dall’accusa durante tutto il processo. E dunque io non posso che ribadire quanto ho sempre detto: sono assolutamente estraneo a queste accuse. E, ovviamente, farò appello perché venga riconosciuta la mia totale innocenza».
A risultare inaccettabili per il super-generale sono state soprattutto le parti della sentenza in cui lo si accusa di essere sceso a patti con i narcos e di avere offerto loro copertura. «I giudici - è il pensiero di Ganzer - che io avrei posto in essere un accordo con questi narcotrafficanti. Si tratta di un accordo assolutamente impossibile per il semplice motivo che io con questi trafficanti non ho mai avuto il minimo rapporto, il minimo contatto. Come potevo prendere accordi con persone che non conoscevo?». «E poi: si sostiene che esisteva una scheggia deviata all’interno del Ros, esisteva un Ros buono e un Ros cattivo. E tutti e due, però, erano comandati dalla stessa persona, cioè dal sottoscritto. Come è possibile?».
Nelle mille e cento pagine della sentenza, non c’è traccia - come non ce n’era nelle carte di una inchiesta lunga e tormentata, rimbalzata tra tre diverse Procure e una quantità di pm - di alcuna forma di arricchimento personale di Ganzer. Per l’accusa, e così pure per i giudici del tribunale, il movente dell’ufficiale era sempre lo stesso: inanellare successi a tutti i costi, fare carriera facendosi bello dei successi ottenuti. In sintesi, organizzare o tollerare traffici per poi scoprirli. A questa interpretazione, Ganzer ha sempre risposto che la sua carriera non ha mai tratto alcun beneficio dall’essere rimasto, più a lungo di qualunque altro ufficiale dell’Arma, nella trincea della lotta al crimine. Inevitabile farsi a questo punto una domanda: e adesso, cosa farà Ganzer? Continuerà a restare al suo posto, a vivere la sua doppia vita di cacciatore e di preda, di investigatore e di imputato? A chi lo ha incontrato ieri, il generale ha risposto così: «Non credo che la situazione sia cambiata rispetto al giorno in cui la sentenza è stata pronunciata.
Io sono ancora al comando del Ros perché così è stato ritenuto giusto dai miei superiori e dalle Istituzioni, ed è alle loro decisioni che io continuo a ritenere giusto dimettermi. Non ho mai assunto iniziative autonome e continuerò a non prenderne». Il generale Ganzer non si dimette.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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