Per lo sviluppo non servono quattrini

La vittoria di Berlusconi e Bossi. Bocciato da Fini in commissione, il nuovo fisco comunale varato in serata dal governo

Ieri il governo ha approvato il federa­lismo municipale. Lo ha fatto con una apparente forzatura, non tenendo con­to del parere negativo della commissio­ne bicamerale. Ma sulle riforme il gover­no non si può fermare. Deve andare avanti, senza farsi imbrigliare dalle pro­cedure parlamentari. In nome e per con­to dei cittadini che chiedono uno stato più agile. Lo dice la storia, anche la no­stra. Ad un gruppo di contadini, intercet­tati da Luigi Einaudi, veniva chiesto co­sa si aspettassero dallo Stato. E questi senza esitazioni: «Una buona strada, se possibile qualche tassa in meno, e al re­sto ci pensiamo noi».

Ecco: negli ultimi cinquanta anni abbiamo fatto di tutto, tranne che ascoltarli. La strada non è così buona, le tasse sono aumentate e soprattutto a loro ci ha pensato lo Stato. Bisognerebbe convincere il presidente del Consiglio, dopo aver tenuto duro sul federalismo, a non mollare la presa sulle liberalizzazioni ( compresa quella più importante che riguarda le tasse). E, già che c’è, a fare della necessità di Tremonti la virtù della sua politica economica. Ci spieghiamo meglio. La frustata al Paese non ha bisogno di quattrini. Si accetti il paradosso: la nostra debolezza nasce proprio dall’abbondanza dei quattrini spesi dal pubblico e non dalla loro scarsità. Senza entrare nei micro casi, abbiamo un esperimento di laboratorio favoloso e si chiama Mezzogiorno. Il suo sviluppo e la sua capacità di generare ricchezza è stato compromesso dal massiccio intervento pubblico. E non aiutato.

Se i quattrini pubblici facessero Pil, la Calabria sarebbe la Svizzera e il Veneto il Marocco: quello che è avvenuto è esattamente l’opposto. L’obiezione più tipica è che oggi i soldi si spenderebbero meglio. Bum. Ascoltate Frederic Bastiat che lo spiegava bene: «Lo Stato è quella grande finzione per mezzo della quale tutti quanti cercano di vivere alle spalle di tutti quanti ». La foto della nostra spesa pubblica al Sud. Si dovrebbe avere il coraggio di dire, cosa che ovviamente la politica che campa di consenso non fa, che le riforme come loro effetto collaterale non debbono redistribuire le risorse esistenti, ma restituirle ai legittimi proprietari: cioè i cittadini contribuenti. Liberalizzare e privatizzare hanno questo grande senso etico. Quando Berlusconi e Tremonti dicono di voler modificare l’articolo 41 della Costituzione, giocano una carta vincente. Non si tratta di una fumoseria,ma di sostanza.L’attività dello Stato nel suo complesso deve essere improntata ad un sistema di relazioni economiche svincolate.

L’errore di liberalizzare à la carte , sul modello comunque positivo di Bersani, è che in tal modo si gettano in mare aperto solo alcune determinate categorie. Mentre le altre, la maggior parte, restano intoccabili negli storici privilegi. C’è infine una grande liberalizzazione che lo Stato deve adottare senza indugio: liberarci da se stesso. Fare impresa, creare ricchezza, assumere collabo-ratori, è per un’economia come respirare. Non si può chiedere il permesso per una funzione vitale.Non si può aspettare un’autorizzazione. Lo Stato e soprattutto le sue articolazioni locali sono di-ventate soffocanti.

Ieri è passato il federalismo fiscale.

Ben venga una responsabilizzazione del bilancio dei nostri amministratori locali. Sapremo giudicarli dalle loro spese e dalle loro pretese. Ma non dimentichino che il fisco e le tasse sono importanti, ma la nostra libertà di iniziativa lo è altrettanto. Se non di più.

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