Giuseppe Cantarano
Dal mito del proletariato come storico soggetto di classe, alla seduzione della «moltitudine» prefigurata da Tony Negri. Dallincandescente rivoluzione comunista, ad un più conciliante «socialismo della persona»: anche per Fausto Bertinotti il terribile «secolo breve» è ormai finito. Via le vecchie incrostate liturgie. Via i vecchi simboli inespressivi. È ora invece di ricomporre le cosiddette «culture critiche» emerse in questi anni. Si tratta, insomma, di una svolta. Dellennesima svolta alla quale i dirigenti della sinistra postcomunista sottopongono i loro iscritti e simpatizzanti. Una svolta - ha ragione Baget Bozzo - che merita la massima attenzione. Perché tende non solo a mutare i riferimenti ideologici della tradizione comunista. Ma a cercare in altri contesti sociali quel nuovo soggetto politico che dovrebbe rifondare una sinistra «antagonista». Una sinistra con un suo profilo e una sua identità. A differenza dei Ds, dice Bertinotti. Un partito culturalmente ormai non più di sinistra e non ancora di centro. Un partito che nel corso di un quindicennio, tra «terze vie» e innumerabili «cose» svanite presto nel nulla, è stato solo in grado - secondo il giudizio di Bertinotti - di riesumare il vecchio compromesso storico. Utilizzando in forma spregiudicata il tatticismo togliattiano delle alleanze. Eppure, a guardar bene, questa nuova svolta, invece di portare la tradizione postcomunista finalmente fuori dalla ormai estenuante transizione, rischia di disperderla. Perché lapprodo - come ha rilevato Baget Bozzo - non è il riformismo delle grandi socialdemocrazie europee, ma un indeterminato antagonismo sociale. Un antagonismo un po bizzarro. Che dovrebbe esprimersi non più attraverso la classe operaia - il mitico proletariato - bensì attraverso la «moltitudine» dei singoli individui che sperimentano il loro sradicamento nellImpero senza confini prodotto della globalizzazione. Un antagonismo che dovrebbe peraltro tradursi allinterno del prossimo governo. Qualora il centrosinistra dovesse vincere le elezioni. Insomma, dal conflitto tra operai e capitale, alle contraddizioni esistenziali dei singoli individui globalizzati. Dalla marxiana centralità sociale ed economica del lavoro, ad un individualismo neoromantico dai timbri vagamente anarchici e cattolici. Se è vero che la Quercia ha smesso ormai da tempo di essere il riferimento privilegiato per la «classe operaia», come mostrano i più aggiornati studi sui comportamenti elettorali degli italiani, la svolta di Bertinotti rischia di sancire il definitivo congedo della sinistra dal mondo del lavoro. Ma la sinistra può rinunciare a dare rappresentanza agli operai?
Nel prossimo Parlamento, ad esempio, non siederà nessun operaio tra i banchi della sinistra. Mentre ci saranno esponenti dellantagonismo sociale e del movimento no-global. Per la prima volta nella sua storia, la sinistra non avverte più il dovere politico» di esibire tra le sue file un Cipputi. Eppure, gli operai non si sono estinti. Sono ancora lì, dentro le fabbriche. Dalle quali ogni tanto sono costretti ad uscire, per sfilare nelle strade. Ma i dirigenti della sinistra non sembrano accorgersi della loro presenza. Li hanno persi di vista.
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