Sono i talebani neri. Sono il fanatismo islamico coniugato con la rabbia e la violenza d’un formicaio africano da 160 milioni d’anime. Sono il concentrato di terrore, intolleranza e ignoranza distillato da una Nigeria dilaniata dagli scontri tribali e dalla contrapposizione tra cristiani e musulmani. Si fanno chiamare «Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad», ovvero «Popolo impegnato nella diffusione degli insegnamenti del Profeta e della Guerra santa», ma per le loro vittime e i loro sostenitori sono i «Boko Haram» quelli che per cui «l’educazione occidentale è vietata». Non è uno slogan, ma la loro spietata linea d’azione. Non a caso colpiscono le chiese, seminano strage tra i cristiani. Il massacro messo a segno la notte del 24 dicembre a Madalla, nello stato confederato di Niger, a circa 45 chilometri dalla capitale federale Abuja, ne è la prova. Quel pullmino imbottito d’esplosivo fatto saltare davanti alla chiesa di Santa Teresa mentre i fedeli escono dalla Messa di Natale è una spietata dichiarazione di guerra. È la rappresentazione di un fanatismo deciso a cancellare chiunque non condivida lo stesso estremismo dogmatico. Ma in quella strage contano anche l’orrore e il terrore impressi nelle menti dei sopravvissuti, il ricordo dei 40 correligionari fatti a pezzi, delle decine di feriti riversi nel proprio sangue davanti alla chiesa semidistrutta. Padre Christopher Jataudarde, il reverendo sceso dall’altare per soccorrere i propri fedeli, di certo non dimenticherà l’uomo sventrato, con le mani raccolte intorno alle proprie viscere che implorava «Padre preghi per me perché sto morendo». Ma la strage della notte di Natale è solo uno degli scenari dell’offensiva islamista. Domenica un’altra bomba è esplosa a Jos, capoluogo dello stato di Plateau. Ieri a Damaturu, una delle città-culla dei Boko Haram, centinaia di persone hanno abbandonato le proprie case in seguito agli scontri tra la polizia e i militanti integralisti costati la vita a una sessantina di persone.
L’obbiettivo degli attacchi è sintetizzato nel comunicato con cui Abul Qaqa, portavoce riconosciuto dei Boko Haram, rivendica la mattanza. «Non ci sarà pace finché non accoglierete le nostre richieste. Vogliamo - proclama il portavoce - la sospensione della democrazia e della costituzione, la piena e immediata applicazione della legge islamica (già in vigore in 12 province musulmane, ndr) e la liberazione di tutti i fratelli incarcerati». L’epopea crudele e sanguinaria dei Boko Haram parte da Maiduguri, la capitale dello stato del Borno vivaio dell’Islam radicale sin dalla conquista britannica del Califfato di Sokoto all’inizio del 1900. Lì nel 2002 Mohammed Yusuf, un predicatore allora 32enne, insegna ai propri fedeli a rinnegare tutti gli insegnamenti della civiltà occidentale non contemplati nel Corano di Maometto. Credere nell’evoluzionismo o che la terra sia rotonda diventa così un’eresia da estirpare a colpi di bombe. Ma i seguaci di Yusuf non si limitano ad attaccare gli infedeli: colpiscono anche le moschee moderate e tutti i simboli dell’amministrazione statale. L’autentico salto di qualità arriva dopo la morte di Yusuf, ucciso in carcere il 30 luglio del 2009 subito dopo la cattura per mano delle forze di sicurezza. Da quel momento la fazione più fanatica del movimento si lega alle cellule di «Al Qaida nel Maghreb» che operano in Mali e Niger e con quelle degli shebab della Somalia. Grazie a queste connessioni la ragnatela qaidista si dipana dall’Africa settentrionale a quella occidentale e orientale.
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