Dicono che chi non sa soffrire non ha un gran cuore. Boscia Tanjevic, allenatore di basket, cittadino del mondo, uomo di lettere ed esploratore dell'anima, ha un cuore enorme e ha deciso che non si farà intimidire dalla malattia, da un cancro al colon che ha deciso di affrontare come ha fatto sempre nella sua straordinaria vita sportiva: andare all'attacco, sfidare il dolore.
Le brutte notizie ti arrivano di notte. Anche questa ci fa camminare sotto la pioggia, senza sapere come fare per contattare l'uomo di Plevlja che dopo la vittoria nell'europeo francese del 1999 alla guida della nazionale azzurra ha preso la cittadinanza italiana. È lontano, ma lo sentiamo sempre vicino, è in Turchia, ad Istanbul, dove allena il Fenerbahce, è sul Bosforo a guardare le barche che portano via i suoi rimpianti, anche se l'unico dolore vero che prova è quello di non poter guidare la nazionale turca nel prossimo mondiale in casa, quello che aveva preparato, come al solito, sfidando tutti per lanciare giovani di talento e alimentando la bava degli invidiosi.
Lo ha sempre fatto. Quando aveva 32 anni stupì l'Europa vincendo la coppa dei Campioni con la Bosna Sarajevo illuminata dal genio di Mirza Delibasic, battendo Varese, quella allenata da Dodo Rusconi, con Dino Meneghin come avversario. Nove anni a Sarajevo dove era arrivato dopo l'esplorazione del vero basket a Belgrado seguendo maestri che, come lui, sapevano donare e non ti rubavano la gioventù, poi la nazionale jugoslava e nel 1982 eccolo a Caserta. Sei anni straordinari con Giancarlo Sarti come fratello manager, il presidente Maggiò come tutore per un’avventura che è diventata storia. Abituato alle sfide, accetta la scommessa di Bepi Stefanel a Trieste ('86-'94) dove per 8 stagioni farà altre cose fantastiche, accompagnando giovani che diventeranno famosi come il sedicenne Gentile. Con lui cresce Dejan Bodiroga, lanciato come straniero quando ancora non aveva 19 anni, con lui diventa un fenomeno il diciassettenne Gregor Fucka, sotto la sua guida cresce il granicero De Pol, nel suo magistero decide di chiudere la strepitosa carriera Dino Meneghin che dura fino ai 44 anni. A Trieste mette radici, compra casa e ancora adesso il suo mare è quello. Accetta di trasferirsi con il gruppo a Milano e quando sente di aver finito la corsa decide che deve dare l'ultimo scudetto all'Olimpia (1996). Gli piacciono le sfide importanti. Vince anche in Francia, prima a Limoges e poi a Lione, scudetto a casa sua con il Buducnost e in Turchia con il Fenerbahce a cui ha dato anche l'ultima coppa nazionale.
Nel 1997 lo chiamano per sostituire Messina alla guida della nazionale italiana. Quattro anni senza respiro: vince l'europeo a Parigi nel 1999, sperimenta, scopre talenti, si ammala ai polmoni, ma combatte e quando gli dicono che fuma troppo trova una via d'uscita arrivando al compromesso del toscano: gli dicono che può farlo, basta che non esageri. Finge di accettare, ma lui è per le sfide impossibili, da mezzo sigaro a due scatole giornaliere.
La magrezza dei poeti che amano vivere da poveri. I suoi ragazzi lo tradiscono alle Olimpiadi di Sydney 2000, un quinto posto che fu amarezza vera, poi l'epilogo nel brutto europeo in Turchia. Eccoci arrivati a questo capolinea. Ci lasciò in una serata di lacrime, dopo essere stato eliminato dalla Croazia, mentre i carbonari dell'anima sghignazzavo per la sconfitta. Eravamo ad Antalya, un porto dove la barca azzurra si sfasciò. Fece quello che doveva fare: dimissioni, ma dopo aver indicato la strada anche a chi non se lo meritava, dopo aver regalato le scatole di sigari che si era portato dietro perché pensava di giocare un'altra finale ad Istanbul.
Antalya nel suo destino. Dirige il Fenerbahce in campionato per l'ultima volta proprio contro la squadra di quel porto di nebbie. Vince, è in testa alla classifica, ma non potrà finire il lavoro. I chirurghi lo chiamano.
Caro Boscia, quando decidi di fare le cose non scegli mai la banalità. Hai sentito degli acciacchi dei tuoi amici più cari e allora hai voluto qualcosa di più: «Avete ragione, noi montenegrini non vogliamo mai la vita facile, non accettiamo di essere secondi. Ma non è un problema il cancro se lo sfidi. Sarà un problema dei medici che dovranno starmi dietro. Io dico che sarà una partita difficile, ma mi piacciono le lotte senza essere favorito».
Vorresti urlare, ma lui vuole scherzarci sopra. Ci chiede di Karl, l'allenatore dei Denver Nuggets che combatte contro un cancro alla gola.
Non lo dice, ma, come ha fatto sempre, nei giorni in cui sfidava Peterson con il suo tupamaros Lopez, quando scherzava con i giornalisti squalificandoli con rosso cartone, o ammonendoli con giallo cartone, quando lanciava sconosciuti che poi diventavano campioni, anche questa volta prova a stupire: «Noi non siamo secondi a nessuno, se ce la fanno quelli della Nba, ce la farò anch'io che nella Nba avrei potuto fare cose grandi, come in qualsiasi posto, magari in Spagna, soltanto che mi offrivano sfide troppo facili».Lui è sempre stato così: sussurra ai campioni che ridono come cavalli, e lo farà con l'anestesista ed il chirurgo che vorrebbero fargli paura.
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