Le tante amnesie italiane sul Protocollo di Kyoto

Le tante amnesie italiane sul Protocollo di Kyoto

Recentemente i Paesi dell’Ue hanno preso l’impegno di ridurre le emissioni di gas serra del 20% entro il 2020 e di portare almeno al 20% la quota di energie rinnovabili. Notizia salutata con grande entusiasmo dai nostri organi d’informazione e forze politiche, sempre in prima linea nella difesa dell’ambiente, specie quando si limita a belle enunciazioni di principio e magari per di gettare la croce addosso al reprobo Bush che non ha ratificato il Protocollo di Kyoto.
Eh già, c’era anche un Protocollo di Kyoto che pochi nel generale entusiasmo si sono ricordati di citare. Ma mentre il 2020 è lontano e nebuloso gli impegni per Kyoto dovranno essere verificati nel 2012. Come mai allora questa amnesia? La ragione è intuibile se andiamo a vedere come si sta muovendo il nostro Paese per cercare di rispettare gli impegni ratificati con una legge del 2002 e, in maniera meno formale, con gioiosi girotondi nelle piazze italiane.
Rispettare il Protocollo di Kyoto non si fa con convegni o marce. L’efficientissima burocrazia Onu si è messa in moto da tempo: tutte le emissioni devono essere puntigliosamente inventariate, compresi i gas usati in anestesia e gli effluvi del letame delle mucche. La nostra penultima relazione è del 2001 e l’ultima è dell’anno scorso: ebbene, rispetto al 1990 le emissioni non sono affatto diminuite, ma anzi nel 2000 erano cresciute dell’8% e nel 2005 quasi del 12%, in barba a misure presentate come risolutive. Restano quindi cinque anni, ma non si capisce come, se non ci si è riusciti nei passati cinque anni si potrà farlo nei prossimi cinque. Ma il governo non si scoraggia e propone un ventaglio di misure «a 360 gradi»: il che avverrà alla lettera e si rimarrà al punto di partenza.
Per la produzione di elettricità il ministro propone un costosissimo programma di «tetti fotovoltaici», che ci farà risparmiare meno dell’1 per mille delle emissioni, più un vago incremento delle energie rinnovabili. A scanso di sorprese si propone anche una vecchia e collaudata soluzione: aumenteremo le importazioni di elettricità (sempre che riusciremo a costruire gli elettrodotti necessari).
I trasporti sono un altro punto debole. Con semplicità disarmante si spiega che è difficile orientare gli italiani verso il trasporto pubblico o su rotaia. Non c’è da stupirsene, se viaggiare veloci in treno in questo paese è considerato un lusso per poca gente bizzarra. Il risparmio verrà quindi con la rottamazione di tutte le auto prodotte prima del 1996: uno su tre di noi dovrà cambiare l’auto fra breve. Molto si punta sul biodiesel, che però, per essere contato come risparmio, prevede che la colza sia coltivata in Italia e non importata. Per risparmiare l’1% di gas serra così dovremo coltivare a colza diversi milioni di ettari di territorio: impossibile. Meno male però che l’incentivazione delle biciclette consentirà una riduzione di un altro 0.3 per mille. In passato gli esperti Onu si erano anche bevuta l’ottimizzazione del controllo dei semafori e l’introduzione di pedaggi d’accesso ai centri urbani. Proposte così efficaci da non essere state reiterate.
Molte speranze infine si appuntano su edifici ottimizzati dal punto di vista energetico con sgravi fiscali sulle ristrutturazioni. Nessuno ha quantificato quanto Co2 faranno risparmiare: il sottoscritto ha usato gli incentivi per rifare la facciata di casa ma non ha notato nessun risparmio energetico. Forse sono fuorilegge.
Sommando tutto ciò scopriamo che ci rimarranno nell’armadio i tre quinti dei gas serra che avremmo dovuto abbattere.

Ma di centrali nucleari si continua a non parlarne. Si finirà con la scorciatoia: acquistare da Germania o Russia diritti di emissione e tirare avanti fino alla prossima scadenza nel 2020.
*Ordinario di Fisica
Università di Roma

Tor Vergata

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