Mai domandare all'oste se il suo vino è buono perché «ogni scarrafone è bello a mamma sua». Quindi, non c'è da stupirsi se Calisto Tanzi sostiene che «la Parmalat è stata la più bella impresa italiana». Sì, è stata un'impresa mettere in piedi il più colossale crac finanziario della storia patria, mascherarlo per anni dietro sconsiderate manovre di bilancio, contabilità fasulle, società di comodo occultate sotto la sabbia dei paradisi fiscali caraibici. È stata un'impresa trovare l'appoggio - forse la complicità - di banche e revisori, e trasformare Collecchio nell'inceneritore che ha ingoiato i risparmi di migliaia di famiglie.
«La più bella impresa italiana» ora naviga in tutt'altre acque; sottratta alla famiglia Tanzi e ripulita dai debiti ha ripreso stabilità, difende con successo la sua fetta di mercato, viaggia discretamente in Borsa e si espande all'estero. Al marchio Parmalat non è rimasto attaccato il marchio dell'imbroglio e del dissesto. Che invece continua ad accompagnare il cavalier Tanzi, 71 anni compiuti martedì scorso. Ieri l'imprenditore emiliano si è presentato in tribunale per deporre al processo nel quale è imputato assieme agli ex amministratori della multinazionale del latte. Prima di entrare nell'aula di giustizia di Parma, ha regalato ai giornalisti l'apprezzamento per la sua creatura, aggiungendo: «Io dico sempre la verità».
L'avesse detta anche una quindicina di anni fa ai mercati finanziari, a Bankitalia, alla Consob, agli azionisti, ai risparmiatori, alle massaie, ai tifosi della sua squadra di calcio, sarebbe stata tutta un'altra storia. La verità di Tanzi è che lui non sapeva niente. «La parte finanziaria del gruppo non l'ho mai seguita di persona, si può dire che non la conoscevo», ha detto ieri in tribunale tra un «non so» e un «non ricordo», prima di essere sopraffatto da un disturbo della parola, una forma di balbettio di cui è vittima da quando soggiornò (per qualche mese) nelle patrie galere, e che ha costretto la corte ad aggiornare l'udienza.
Tanzi nulla sapeva del buco di 14 miliardi di euro, 28mila miliardi di lire, una manovra finanziaria dell'epoca. Non sapeva che dai bilanci dell'azienda, quotata a Piazza Affari, venivano sottratti fondi girati ad altre società di famiglia estranee al gruppo Parmalat. Ignorava che per coprire questi ammanchi la struttura finanziaria teneva una contabilità parallela su computer che gli impiegati distrussero a martellate prima di essere arrestati. Non sospettava che obbligazioni e prestiti bancari dovessero imboscare una voragine finanziaria che veniva spazzata nelle «discariche» delle Cayman chiamate Bonlat o Epicurum. Non immaginava che migliaia di persone gli versavano soldi veri (quasi sempre su consiglio di banche prive di scrupoli) in cambio di titoli di credito stampati su carta straccia.
Poche cose il cavalier Tanzi ricorda bene. Per esempio, di aver pagato politici per mantenere buoni rapporti: «Abbiamo finanziato praticamente tutti, se non a 360 gradi almeno a 358». E poi di aver subito pressioni dalla Banca di Roma per l'acquisizione di Eurolat a un prezzo superiore al valore reale perché altrimenti le relazioni con l'istituto di Cesare Geronzi si sarebbero complicate. Tanzi nega tuttavia di essere stato il grande burattinaio della macchinazione Parmalat, pur avendo i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione. Sostiene che numerosi operatori del sistema finanziario (banche, organi di controllo, revisori dei conti), conoscessero la reale situazione patrimoniale senza intervenire, avallando di fatto la gestione. Insomma, pensava che tutto fosse candido e fluente come il latte che produceva. «Io quelle operazioni le ho soltanto ratificate», ha dichiarato al pm Vincenzo Picciotti che lo interrogava.
Spetta ai giudici stabilire le varie responsabilità: lo scandalo è scoppiato sei anni fa, gli arresti scattarono di lì a poche settimane (Natale 2003) e chissà quanto tempo ci vorrà ancora per giungere a una sentenza definitiva. Calisto Tanzi ha già una condanna a 10 anni inflittagli a Milano per i reati finanziari (aggiotaggio, falso, ostacolo alla Consob), una pena che difficilmente sconterà considerate l'età e la salute malferma.
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