La targa di Wojtyla

Tra le diverse osservazioni sulla opportunità di commemorare con una targa la visita del Papa alla Camera dei Deputati, le meno pertinenti mi sono sembrate quelle sollevate in difesa dello Stato laico, come se la eccezionale presenza, non di un rappresentante di un altro Stato, ma di una monarchia sconfitta a Porta Pia e mai prima riaccolta nell'integrità del suo magistero, non soltanto spirituale, nel tempio della moderna democrazia repubblicana, non meritasse una segnalazione dovuta a un evento unico ed eccezionale. Non può certo essere detta una iniziativa «fuori da ogni logica». A che titolo il Papa era stato chiamato a testimoniare in Parlamento?
Non certo per ragioni di cortesia istituzionale, ma per il magistero riconosciuto alla sua altissima e unificante (fino a Fidel Castro!) azione politica. Grande fu l'emozione, e totale la condivisione delle parole del Papa. Wojtyla non era soltanto un Papa, ma «quel» Papa che, già a Cracovia, aveva scardinato il sistema di potere comunista, l'uomo della dottrina e del dialogo, della modernità e della tradizione, uno dei grandi personaggi, se non il più grande, della storia recente. Dunque, allora, perché sottilizzare sulla intelligente proposta del presidente della Camera di conservare memoria di quel momento sulle pareti dell'aula, insieme ad altri richiami a eventi eccezionali? Non mi pare che le obbiezioni abbiano fondamento; neppure i rilievi minuziosi di Filippo Ceccarelli. L'opportunità c'era tutta, e la portata storica dell'avvenimento è assolutamente evidente. Ho invece constatato che, al di là della retorica del testo e della intrinseca bruttezza della targa, priva di ogni eleganza letteraria, colma di retorica («fece auspicio di nuovi e fecondi traguardi di giustizia e di pace nel solco dei valori di civiltà della nazione per una umanità senza confini») e in brutti caratteri, nessuno si è messo nel punto di vista del Papa.
Il quale, oltre alle consuete esortazioni e all'enunciazione di principi condivisi, aveva, in quella specialissima occasione, chiesto con determinazione una sola cosa al Parlamento, impegnativa ma essenziale, doverosa e, già in innumerevoli occasioni, reclamata da diverse parti politiche: l'amnistia. Con un accuratissimo richiamo alla solitudine e al dolore dei carcerati. Una richiesta forte, ma perfettamente corrispondente allo spirito cristiano, e storicamente motivata dal disagio e dall'affollamento della vita nelle carceri. Senza dimenticare che non c'era nulla di straordinario nella richiesta di quello che, nel corso di più di cinquant'anni di democrazia, era stato deliberato dal Parlamento con una cadenza decennale, come atto dovuto a compensazione della lentezza dei processi e della mortificazione di una pena afflittiva in aggiunta alla condanna, nel disagio delle carceri.
Isolare i responsabili di atti criminosi non vuol dire costringerli a condizioni di vita umilianti e talvolta disumane. Naturalmente tutte le parti politiche presero in altissima considerazione la molto esplicita richiesta del Papa. Si discusse, si argomentò, si cercarono larghe intese, si definirono i limiti e gli estremi dell'amnistia. E poi non se ne fece nulla. Così, da addirittura sedici anni, in Italia, non si può contare su una misura di emergenza che compensi, sia pure in modo sommario, l'inadeguatezza e le imperfezioni del sistema giudiziario e dell'apparato penale. La richiesta di papa Wojtyla era dunque, per molte ragioni, opportuna, condivisibile, ragionevole, sotto l'aspetto legislativo; oltre che umana, necessaria, doverosa, sotto l'aspetto etico. Il Parlamento ascoltò, approvò, condivise, applaudì, ma la proposta di Wojtyla fu lasciata cadere senza vergogna. Il Papa non mancò di insistere in altre occasioni pubbliche, ma non ottenne alcuna soddisfazione. Ora, lo stesso Parlamento che lo ha ignorato, e sostanzialmente vilipeso, pretende di onorarlo con la targa che commemora un fallimento. Non se ne capisce il senso. Le ragioni per dimenticare un atteggiamento così offensivo dovrebbero prevalere su quelle di ricordarlo per la natura insolita dell'evento. Le lapidi non compensano le inadempienze: semmai ne amplificano la memoria.
Quella targa è il ricordo della beffa a Wojtyla; e non in nome della laicità dello Stato contro il rischio di una egemonia religiosa, ma in nome di un opportunismo politico miope e meschino. E nel gran rifiuto alla richiesta di Wojtyla, pur tra sofistici distinguo, grande è la responsabilità della sinistra. In quella memorabile giornata il Papa ha parlato invano.
Per questa ragione, dal punto di vista del Papa, non della sacralità del Parlamento, era preferibile non insistere nel ricordo di quell'episodio suggestivo ma senza conseguenze politiche e persino irriguardoso per la figura del Papa. Non un fatto storico quella targa commemora, ma un'occasione perduta al di là della cerimonia fine a se stessa.

E, per quello che ha determinato, per gli effetti che non ne sono derivati, Papa Giovanni Paolo II poteva anche non venire in Parlamento. Una ordinaria giornata di attività parlamentare con uno straordinario ospite, che ha parlato invano.

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