Tattica all’americana

Può un Paese dalle responsabilità globali come gli Stati Uniti permettersi due anni di decisioni politiche dimezzate nel nome della bipartisanship, facendo ricorso solo al pragmatismo, cioè a quel «grande e dimenticato contributo anglosassone alla politica», ricordato da Ferdinando Salleo su La Repubblica? Lawrence Summers ha sottolineato su Il Sole 24 Ore che, dal dopoguerra a oggi, su 16 elezioni, ben 7 volte si è avuto un «voto di rifiuto» verso la politica del presidente in carica senza impedire un'intesa costruttiva tra Congresso e Casa Bianca, cioè tra potere Legislativo e potere Esecutivo nel rispetto del sistema dei pesi e contrappesi. Ma proprio la prospettiva delle elezioni più importanti, quelle presidenziali che si terranno nel 2008, sembra destinata ad esasperare un pragmatismo tattico in base al quale ciascuno dei due partiti farà le concessioni minime per mettersi al riparo, tra due anni, dall'accusa di essere stato responsabile di scelte sbagliate e controproducenti, ma con un effetto deprimente sull'intera politica americana.
Pensiamo all'Irak. Il presidente Bush aveva già deciso di cambiare linea prima del voto del 7 novembre, attivando la commissione Backer, che implicava la sconfessione di Rumsfeld, il quale si è rassegnato alle dimissioni dopo l'ampiezza della sconfitta. Ora, la nuova linea, se darà risultati positivi, sarà rivendicata dai Repubblicani come frutto di una decisione che era stata presa prima delle elezioni di medio termine, quindi non influenzata dalla vittoria dei Democratici; se non darà risultati positivi, sarà messa sul conto di questi ultimi, ritenuti responsabili di avere imposto un cambiamento. Per questo i Democratici sono assai prudenti e non intendono imporre un drastico cambiamento sulla politica estera. Sugli altri campi della politica e dell'economia si ripropone lo stesso schema: un esasperato tatticismo in funzione delle prossime elezioni presidenziali. Perché alla fine perde chi subisce più critiche, non chi propone il programma più convincente.
Se è vero, come sembra, che «il vero sconfitto è il metodo di governo unilaterale» (Salleo), con l'attenuante di un unilateralismo autofrenato - in Irak bisognava inviare mezzo milione di uomini e non poco più di centomila - allora il problema si sposta sul meccanismo istituzionale. Perché il pragmatismo che ha reso sostenibile in passato la coabitazione tra Casa Bianca e Congresso di colore politico diverso era tanto più valido quanto minore era il coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari mondiali. Da tempo, ormai, le elezioni americane non sono più un fatto interno ma un evento di rilievo internazionale, non solo sul piano politico ma anche su quello economico. Quindi due anni di pragmatismo tattico e frenato sono sempre meno indicati al ruolo americano nel mondo.
Ciò però significa che la separazione dei poteri, tutt'altro che assoluta e rigorosa, potrebbe ulteriormente ridursi. Il lungo e cordiale colloquio tra George Bush e Nancy Pelosi può essere interpretato come prova di flessibilità del sistema americano, ma può apparire come un passo verso l'instaurazione di un meccanismo fiduciario permanente tra Presidenza e Congresso che intaccherebbe il modello presidenziale, avviandolo o verso quello britannico o verso quello francese.

Sebbene nessun presidente eletto voglia rinunziare alle proprie prerogative, il ruolo correttivo delle elezioni di medio termine produce comunque un affievolimento del potere presidenziale, rafforza il tatticismo nelle decisioni politiche e fa crescere tendenzialmente il peso del Legislativo nei confronti dell'Esecutivo.

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