Tavaroli: non rendevo conto a Tronchetti

Gianluigi Nuzzi

da Milano

«Non sono una scheggia impazzita di Telecom. Soddisfavo le richieste dei vari dirigenti, come il capo dell’ufficio personale e dipendevo da Carlo Buora, amministratore delegato della società e non da Marco Tronchetti Provera. Non ho mai agito in autonomia, di mia spontanea iniziativa». Giuliano Tavaroli vuol dire Telecom, Buora e chi sa chi altri ancora. Tre ore di interrogatorio e l’ex capo della sicurezza del gruppo telefonico in carcere da mercoledì, respinge tutte le accuse. Assistito dal penalista Massimo Dinoia, rivendica di aver agito esclusivamente nell’interesse di Telecom-Pirelli. E tira in ballo le Brigate rosse per giustificare quei controlli a tappeto disposti su migliaia di operai e impiegati che ambivano a essere assunti da Pirelli e da Telecom.
«Ebbi l’incarico dal direttore del personale Pirelli - mette a verbale Tavaroli - subito dopo l’omicidio di Massimo D’Antona. Si temevano infiltrazioni delle Brigate rosse. Tra l’altro era stato ritrovato un volantino delle Br in una cabina telefonica vicino all’azienda». Situazione fotocopia, assicura Tavaroli, per i controlli sui candidati Telecom: «Anche queste verifiche avvengono subito dopo l’omicidio del professor Biagi a Bologna». Che poi Cipriani attingesse i dati da banche dati riservate, corrompendo forze di polizia infedeli, Tavaroli dice di non saperne nulla: «Io gestivo 150 milioni di budget all’anno per la sicurezza. Qui parliamo di 20 milioni di euro in nove anni». Come dire: vicende marginali. «Non seguivo ogni singola pratica, i dirigenti di Pirelli prima e di Telecom poi chiedevano notizie ai miei manager che agivano in autonomia».
Ma quali manager? Tavaroli indica i capi del personale che si sono succeduti: «Mi evidenziavano la necessità di compiere indagini sui candidati e io delegavo i miei dipendenti che gestivano in autonomia le pratiche». Tra chi bussava alla sua porta, Tavaroli indica anche il capo dell’audit Armando Focaroli: «Ogni tanto mi chiedeva delle pratiche». L’indicazione non è casuale. Focaroli infatti aveva messo a verbale che non poteva compiere i dovuti accertamenti interni per l’autonomia gestionale di Tavaroli che «riferiva direttamente al presidente». E a questo punto ha indicato Buora: «Ci sono delle imprecisioni. Io dipendevo da Buora e non dal dottor Tronchetti Provera».
La difesa si gioca quindi in tre mosse. Negare ogni accusa scaricandola sui sottoposti che lavoravano con gli 007 privati di Emanuele Cipriani. Sostenere quindi che ruolo e incarico erano organici a manager e strategie del gruppo. Indicare in Valente e Lambiase i dipendenti Telecom che pagavano le fatture estero su estero per la Polis d’Istinto di Cipriani e che saldavano le fatture (false) emesse dalla struttura dell’amico di infanzia. Anche lui è stato sentito e ha confermato quanto sostenuto nei precedenti interrogatori. «Sta spiegando tutto», taglia corto il difensore Vinicio Nardo. Su di lui emergono anche altri particolari. Cipriani per poter utilizzare dei conti correnti a Montecarlo, spostare quindi soldi da un conto corrente alla Barclays Bank di Londra alla Abc Banque International de Monaco, aveva un domicilio nel Principato che corrisponde a quello della nuora del venerabile Licio Gelli, moglie di uno dei due figli del capo della loggia Propaganda 2. Uno spunto approfondito: il gip Paola Belsito nell’ordinanza sostiene che «Cipriani gode di importanti conoscenze in ambito massonico». Quanto ciò sia rilevante e non suggestivo ancora non si capisce.

Di sicuro quei 13 milioni di euro di Cipriani sequestrati all’estero sono stati bloccati al momento giusto. L’investigatore privato li stava per trasferire a una fondazione nel Liechtenstein.
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it

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