Telecom, Prodi deve difendersi in diretta tv

Palazzo Chigi teme che il caso si ripercuota anche su politica estera ed economica

Laura Cesaretti

da Roma

La diretta ci sarà: lo ha comunicato ieri sera il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Oggi alle 15, dunque, Romano Prodi si affaccerà agli schermi Rai per spiegare, dai banchi del governo a Montecitorio, la sua versione dell’affaire Telecom.
La trasmissione del dibattito in televisione era stata sollecitata ieri dai capigruppo della Cdl, vista «la rilevanza dell’argomento e l’attesa dell’opinione pubblica di un chiarimento sulla vicenda Telecom». E Bertinotti, avuto il via libera da Palazzo Chigi, ha dato la sua autorizzazione.
Il premier si è garantito un dibattito il più blindato possibile: parlerà per primo lui, poi interverrà un oratore per gruppo e lì finirà. Niente replica, niente voto perché per una semplice «informativa» del governo il regolamento della Camera non prevede la presentazione di ordini del giorno da votare. Diverso il discorso per il Senato, dove Prodi si recherà la mattina del 5 ottobre: a Palazzo Madama c’è la possibilità che l’opposizione solleciti una votazione. E ieri nell’Unione c’era chi azzardava che in quel caso «Prodi sarà costretto a mettere la fiducia, per non rischiare che un ordine del giorno della Cdl sul caso Rovati passi».
L’opposizione è intenzionata a cannoneggiare. Parleranno Fini, Tremonti e Casini, mentre l’Ulivo schiera Fassino. Il premier vorrebbe volare alto, evitare riferimenti diretti alle diverse versioni dei colloqui con Tronchetti, ai verbali Telecom da cui risulta che era stato informato dei piani aziendali, al documento Rovati di cui nega ogni paternità e conoscenza, al comunicato di Palazzo Chigi con cui si mettevano in piazza le informazioni ricevute da Tronchetti. Ma è su questi tasti dolenti che la Cdl batterà: «Deve aspettarsi di essere bombardato», ammette il dipietrista Pedrini. «Non cerchi di mischiare le carte parlando di intercettazioni anzichè di Rovati», avverte Cicchitto per Forza Italia.
Nonostante la blindatura del dibattito odierno, ieri dall’entourage del premier qualche preoccupazione trapelava. Per i colpi e gli strattoni che continuano ad arrivare da fuori e dentro la maggioranza. Il New York Times picchia duro: «Prodi ha interferito negli affari di un’azienda privata». Guido Rossi rivendica davanti alle commissioni parlamentari «il diritto delle imprese a veder salvaguardata la propria autonomia». E poi «c’è il rischio - si spiegava dallo staff del premier - che le fibrillazioni della maggioranza sulla Finanziaria si ripercuotano su tutte le altre questioni aperte, e in tutte le sedi parlamentari». Preoccupazione tutt’altro che infondata: l’aria che tira nell’Unione è pessima, ieri sera la maggioranza si è salvata per un solo voto alla Camera (dove il vantaggio è di quasi 70 seggi) sulla questione Tav, dopo un’intera giornata di riunioni nelle quali la maggioranza non era riuscita a trovare alcun accordo su un testo da contrapporre alle mozioni della Cdl che impegnano il governo a dare il via ai lavori. Al Senato si trema a ogni votazione sull’ordinamento giudiziario. Sull’Afghanistan è riesplosa la grana del ritiro, e l’Ulivo stesso chiede al governo di ridiscutere la missione. E sulla finanziaria la bagarre è totale, e l’epicentro dello scontro è proprio dentro il famoso «timone» della maggioranza, l’Ulivo. Ieri Piero Fassino e Massimo D’Alema hanno dovuto richiamare ministri e sottosegretari ds, radunati per tentare di calmare le acque sulla manovra economica, al «dovere di lealtà» verso il governo, e alla «responsabilità» di non creare nuovi strappi proprio mentre si sta cercando di «chiudere» il caso Telecom. «La vicenda si chiuderà - nota il ds Angius - ma il problema rimane», perché nella gestione del caso Rovati «sono stati fatti errori».

E dunque? «Non voglio commissariare Prodi - dice il vicepresidente del Senato - ma sento l’esigenza di un maggior coinvolgimento e responsabilizzazione delle forze politiche nelle scelte del governo». Il premier, insomma, non può continuare a fare di testa sua, passando sopra i partiti che tengono in vita il suo governo.

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