Tempi duri per Obama: accordo con la Russia ma crisi nera con la Cina

Accordo con la Russia ma crisi nera con la Cina. Per non dire delle difficoltà in Medio Oriente con l’alleato israeliano. Non è un periodo facile per la diplomazia degli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton, già pesantemente impegnati dal fronte bellico in Afghanistan e dalla gestione post-bellica dell’Irak, oltre che dalla preoccupante «grana» iraniana, devono dedicare fior di energie ai difficili rapporti con le altre due aspiranti superpotenze mondiali: Mosca e Pechino, appunto.
La prima vive ormai da decenni una decadenza politica ed economica, ma non rinuncia a un rango di primo piano, soprattutto geostrategico; la seconda, con i forzieri sempre più pieni grazie a un prolungato e straordinario boom economico, è protagonista di un attivismo internazionale senza precedenti ma soprattutto lascia progressivamente trasparire la propria volontà di sfidare Washington per il ruolo di incontrastato numero uno globale.
I buoni rapporti con Mosca e Pechino sono stati in testa all’agenda di politica internazionale di Obama fin dalla campagna elettorale per le presidenziali del 2008. Al momento le cose sembrano funzionare meglio con la prima, mentre con la seconda il barometro segna un costante peggioramento. La più recente novità positiva nelle relazioni russo-americane riguarda l’accordo in vista per un nuovo trattato sul disarmo nucleare. Sabato scorso una cordiale telefonata di Obama al collega russo Dmitry Medvedev ha confermato che le diplomazie dei due Paesi che furono protagonisti della Guerra fredda hanno raggiunto - come si legge in un burocratico comunicato del Cremlino - «un elevato livello di consenso sulle questioni cruciali della bozza del trattato». Obama e Medvedev, insomma, sono quasi pronti a firmare il nuovo Start, che sancirà una significativa riduzione degli arsenali nucleari russi e americani. I negoziati non sono finiti e non si è ancora parlato di una data, ma il Cremlino ha già indicato che il traguardo non è lontano e che potrebbe accettare la proposta americana di scegliere Praga quale sede della cerimonia della firma del futuro trattato. Venerdì, tra l’altro, la Clinton sarà a Mosca per la riunione dei ministri degli Esteri del «quartetto» impegnato nella ricerca della pace tra israeliani e palestinesi, e certamente coglierà l’occasione per spingere ulteriormente nella direzione positiva.
Se Obama può rallegrarsi pensando alle relazioni con Mosca, ben altri pensieri devono affollare la sua mente quando si concentra su Pechino. Ieri il premier cinese Wen Jiabao ha rigirato il coltello nella piaga della crisi dei rapporti con gli Stati Uniti, accusando apertamente Obama di portarne la responsabilità. Dalla fine del 2009, e in particolare dalla recente visita alla Casa Bianca del Dalai Lama, sgraditissima ai vertici cinesi, i rapporti tra i due maggiori protagonisti della scena mondiale non hanno fatto che peggiorare. Sentendosi forte come mai in passato, la Cina si permette ormai di alzare la voce con l’America ogni volta che ritiene che questa prenda iniziative inopportune. Così, quando Obama confermò l’invito al leader spirituale dei tibetani, Pechino arrivò a tentare un esplicito ricatto, collegando un suo atteggiamento disponibile al Consiglio di Sicurezza sul tema del nucleare iraniano con un no in extremis al Dalai Lama. Il giochino fallì, ma non del tutto: perché un preoccupato Obama tentò di salvare capra e cavoli riservando al premio Nobel tibetano un’accoglienza non proprio di serie A, con le foto della sua uscita dalla porta di servizio della Casa Bianca che fecero il giro del mondo.
Non bastò a Pechino, che poi si risentì ulteriormente per la vendita di armi americane a Taiwan, la Repubblica nazionalista sull’isola di Formosa che considera ostinatamente una propria provincia ribelle. Seguirono ulteriori contrasti e incomprensioni sull’Iran e su Google, il colosso americano dell’informatica che ha minacciato di lasciare la Cina per non piegarsi alla sua censura. E ora il numero due cinese torna a puntare il dito contro Washington. Per tutte le ragioni sopra citate, ha detto ai giornalisti Wen Jiabao, tocca agli Stati Uniti «agire per ricucire le relazioni».

Che tradotto significa che in futuro Pechino non tollererà più dall’America quello che considera un doppio gioco e che chiama «violazione della sovranità cinese», ossia il mantenere buoni rapporti contemporaneamente con la resistenza tibetana e Taiwan e con la Cina stessa. I mezzi per far pressione non mancano e Wen ne ha citato uno: di rivalutazione dello yuan, ha detto citando una richiesta occidentale e americana in particolare, per ora non si parla neanche.

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