Un tesoro archeologico sepolto dai kazaki

Dal buonismo del benefattore, all’egoismo del beneficiario. Dal regalo di Veltroni al Kazakistan, a un’altra nazione, l’Italia, costretta a dire addio a ritrovamenti archeologici di enorme valore. Già pronti per essere ricoperti di ghiaia e di cemento in attesa di essere restituiti, chissà tra quanti decenni, alla luce che meritano.
È una storia ricca di colpi di scena clamorosi e insieme deludenti quella che ha per teatro Villa Manzoni, il gioiello di architettura sulla Cassia di cui abbiamo già parlato in queste pagine alcuni giorni fa. Allora vi avevamo raccontato come il Comune di Roma non avesse esercitato il diritto di prelazione sull’acquisto dell’immobile, a dispetto dei fondi già stanziati da un decennio e con un atto di scriteriata liberalità verso l’ex repubblica dell’Unione Sovietica.
Ancora, però, non eravamo venuti a conoscenza di altri sviluppi della vicenda, di ciò che stava avvenendo all’interno di un cantiere blindato per tutti, o meglio, quasi per tutti, in un parco privato ma all’interno di un’area protetta, come il Parco di Veio, proprio per l’enorme valore archeologico dei ritrovamenti finora fatti nella zona.
Durante i lavori per la messa a punto dei locali e degli ingressi della futura ambasciata, ecco la novità, è saltato fuori un autentico patrimonio: mura di età repubblicana e augustea, un ninfeo, ambienti con bellissimi mosaici, cisterne con cunicoli e altri capolavori risalenti persino al III secolo avanti Cristo.
Che il terreno, nove ettari in tutto, ritagliati all’interno del quartiere «Tomba di Nerone», fosse zeppo di testimonianze storiche lo si poteva intuire in partenza: l’architetto Brasini, infatti, aveva progettato il complesso sulle rovine della residenza favorita dell’imperatore Lucio Vero. Ma che quelle tracce fossero tanto numerose, così ben conservate e databili a epoche ancora precedenti, è stata una sorpresa per tutti, addetti ai lavori inclusi.
In un primo tempo i kazaki hanno contribuito economicamente al recupero e agli scavi di quel tesoro che si sono trovati in casa ma poi, resisi conto che le operazioni rischiavano di dilatarsi all’infinito, hanno cambiato frettolosamente idea.
L’imperativo categorico è diventato quello di completare le azioni conservative il prima possibile, chiudendo il portafoglio e costringendo la soprintendenza archeologica romana a reperire fondi propri, fondamentali per evitare che quelle bellezze fossero protette in maniera grossolana e, non è escluso, finissero schiacciate da macchine di grossa cilindrata o da interventi di edilizia invasiva.
Il fatto stesso che il denaro sia arrivato quasi subito, come assicurano fonti ben informate, è la prova più efficace dell’enorme valore di quelle opere.
In definitiva, quanto sta accadendo oggi a via Cassia 405 ha dell’incredibile: buona parte dei reperti sono stati sotterrati insieme con una struttura che ne garantisce l’integrità, e la stessa fine faranno anche tutti gli altri. Sarebbe questa la prassi quando un privato non vuole assumersi gli oneri di manutenzione e pulizia.
I nuovi proprietari, bontà loro, si sono riservati solo un piccolo museo personale nel seminterrato come chicca da mostrare agli ospiti illustri, per il resto hanno sostituito la storia con un vialetto elegante e un giardino colorato.
In più, starebbero progettando una seconda strada di accesso alla villa dal lato sud, non curandosi dei mille vincoli imposti dall’appartenenza della loro proprietà alla zona protetta del parco di Veio. E durante le operazioni per installare le telecamere di sicurezza sarebbero venuti alla luce altri reperti ancora in attesa di un’opportuna catalogazione.
Eccolo qui, dunque, il «prezzo doppio» pagato da Roma per il buonismo di Veltroni e della sua giunta: non bastava la perdita evitabilissima di una struttura che poteva diventare una sede istituzionale di pregio per il municipio XX, circondata da una zona di verde pubblico del tutto assente nei dintorni e chiesta a gran voce in tante occasioni dai comitati di quartiere e dai semplici cittadini.
Al bilancio bisogna aggiungere, per chissà quanto tempo, pure la chiusura di un’importante area archeologica, che sarebbe potuta diventare un museo a cielo aperto, anche questo aperto a tutti.


E a rendere ancora più desolante l’intero quadro si insinua una triste certezza: quanto è stato portato alla luce è solo una piccola parte. Potenzialmente, nel sottosuolo del parco di Villa Manzoni c’è molto altro. E sottoterra è destinato a rimanere.
mar.morello@gmail.com

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