Politica

Il testamento di Olmi

Sì, è certamente destinato a suscitare un ampio e vivace dibattito - si spera - dentro e fuori dalla Chiesa l'ultimo film di Ermanno Olmi, Centochiodi, quello cui il maestro di Bergamo, il regista de L'albero degli zoccoli e de La leggenda del santo bevitore, ha affidato il suo testamento artistico e spirituale. La trama è presto detta: uno stimato docente di filosofia delle religioni (Raz Degan), prima di cambiare radicalmente vita, decide di lasciare il segno con una sorta di atto dimostrativo e, nottetempo, si reca nell’immensa biblioteca che custodisce migliaia di preziosi volumi di teologia, filosofia e storia adorati da un suo collega prelato e, in una scena memorabile quanto scandalosa, li inchioda uno a uno al pavimento di quel tempio del sapere. «Le religioni non hanno mai salvato il mondo», è il làscito ai colleghi e agli studenti, più o meno adoranti, di questo professorino dai tratti nazareni. A una delle allieve, prendendole una mano tra le sue, dice più o meno: una carezza vale più di tutto il sapere contenuto in questi libri che ci sovrastano. La mattina dopo, il custode della biblioteca li troverà inchiodati al pavimento. Il professorino si libera del telefonino, della Bmw e della bozza del prossimo saggio pronto per l'editore, e si trasferisce sulle rive del Po, dove inizierà una nuova vita fatta di semplicità e autenticità e rari racconti della vita di Gesù al gruppo di vecchietti che, allegoria dei dodici apostoli, lo accolgono con curiosità («da dove lo hanno schiodato quel Cristo», dice uno di loro) prima di cominciare a radunarsi attorno a lui.
Con questo film fortemente evocativo, denso di dialoghi e figure di rara intensità (l’ingenua innamorata Luna Bendandi - Maria Maddalena -, il vecchietto che fa visita al professore per farsi ri-raccontare la parabola del figliol prodigo) il regista vibra un potente atto d'accusa del cristianesimo rimpicciolito a religione, una critica dei cosiddetti chierici, detentori della sapienza. E, forte dell’espressione evangelica in cui si dice che Dio ha nascosto le cose importanti ai sapienti per rivelarle ai semplici, qui straordinariamente rappresentati, Olmi delinea chirurgicamente la distinzione tra fede e religione, tra cristianesimo - unica confessione in cui Dio diventa uno di noi ed è tuttora incontrabile nella Chiesa - e religioni, intese come insieme di regole e dogmi stabiliti a priori. È vero, l’atto di accusa del regista parte dall’idolatria della cultura, incarnata dal monsignore che si piega, adorante, su quei libri, e abbraccia anche il cristianesimo quando viene ridotto a dottrina, etica, solidarietà, o cristallizzato in dogmi. Secondo Michele Serra, nel suo film Olmi salva solo il messaggio della fratellanza, «il sale evangelico dell’amore per il prossimo». E un’interpretazione di superficie può far pensare che sia così anche quando, al maresciallo che lo arresta per il suo atto eversivo, il protagonista ridice il suo pensiero, ovvero che le teorie di tutti i filosofi e teologi non valgono un caffè bevuto insieme con un amico. Il fatto è che questo amico è lui, il protagonista, il Cristo della strada interpretato da Degan. Dunque, Olmi dice qualcosa di più che non «l’amore per il prossimo» che, senza l’amore di Cristo morto in croce, sarebbe solo un nuovo e più sofisticato moralismo. A me pare che Centochiodi dica che il cristianesimo è l’incontro con una persona e, citando Klibansky, che «pur necessari, i libri non parlano da soli». Ci vuole qualcuno che li incarni, li trasmetta, li contagi. Un discorso che vale per tutti i libri, vangelo compreso, e che suona come un richiamo a coloro che ci credono soprattutto quando dimenticano l’incipit del primo capitolo di Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne». Senza l’incarnazione, senza la testimonianza viva - e qui si apre tutto lo spazio della responsabilità, della miseria e del peccato dei cristiani - anche il vangelo rimane un libro sterile. Così risulta un po’ strumentale contrapporre il cristianesimo dell’amore di Olmi a quello del dogma di Benedetto XVI. Non credo affatto esista vera contrapposizione tra il messaggio del film e il magistero di Ratzinger. Quando mi è capitato di ascoltare il papa, anche una settimana fa in Piazza San Pietro, l’ho sempre sentito insistere sul cristianesimo come desiderio ed esperienza di bellezza e di gioia, grato lui per primo che, in un’epoca in cui viene vissuto come «qualcosa di faticoso e opprimente», ci sia chi testimonia che «Cristo ci salva non a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa». Nella prima pagina della sua enciclica, intitolata non a caso «Dio è carità», Benedetto XVI scrive: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona». Credo che anche Olmi abbia voluto dire questo e quando l’altra sera, ospite di Otto e mezzo, Giuliano Ferrara gli ha chiesto che cosa pensasse di papa Ratzinger, il regista ha risposto citando il Nazareno del suo film: «Mi piacerebbe che bevesse un caffè con me».


Chissà: mai dire mai.
Maurizio Caverzan

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