testimonianza 2

diUn «beep» assordante e rumoroso è uscito dal mio iPhone che mi ha svegliato in piena notte. Avevo memorizzato questo «beep» col suono delle sirene dei pompieri di New York, così ogni volta che il detective William Orange mi spediva una email per aggiornarmi sulle indagini o per chiedermi informazioni, l’avrei letto immediatamente. Ho afferrato gli occhiali sul comodino e subito ho letto l’email. Era quella che aspettavo. Era il messaggio che mette fine a questo mio incubo personale, anche se mia cugina Rita non ritornerà più vita. Con molto garbo e tatto (i detective newyorchesi studiano psicologia), il poliziotto Orange mi aveva spedito poche parole ma inequivocabili: «We found who killed Rita».
Abbiamo preso chi ha ammazzato Rita. Il capo detective della squadra omicidi di New York si scusa con il sottoscritto perché è molto preso dalle procedure per l’arresto e l’incriminazione, ma scrive che presto mi telefonerà. Passano forse 10-15 lunghi minuti e il mio iPhone squilla. Dall’altra parte c’è il detective Orange: «We gotta’ him». L’abbiamo preso. «He confessed». Ha confessato e le numerose prove lo inchiodano, anche il Dna. «Non dormo da due giorni, vado a riposarmi un po’ e poi ti chiamerò domattina», aggiunge il detective. Che puntualmente mi ha richiamato e ha risposto a una lunga serie di domande che il papà e il fratello di Rita mi avevano scritto.

Se fosse andata a quel commissariato di polizia che dista meno di 100 metri dal suo appartamento di East Harlem e chiesto un «order of protection», Rita sarebbe ancora in vita. Ma è andata così, era destino che il suo sogno americano dovesse finire in appena 5 anni.

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