Suo fratello Thaksin l’ha definita «il mio clone» e proprio per questo lei, Yingluck Shinawatra, uscita dal nulla due mesi fa, ha vinto, anzi stravinto le elezioni thailandesi per diventare il primo premier donna del Paese dell’Estremo Oriente. Perché Thaksin Shinawatra, l’ispiratore delle «camicie rosse» che da anni chiedevano il ripristino della legalità democratica in Thailandia, pur in esilio a Dubai dopo essere stato deposto dai militari nel 2006, rimane l’uomo politico più amato del suo Paese. E ora che ha vinto di nuovo le elezioni sia pure per interposta persona gli ambienti più tradizionalisti e vicini alla monarchia tornano a temere un suo ritorno sulla scena, in una forma o in un’altra.
Ma torniamo alla protagonista di un trionfo elettorale che era annunciato. E che è stato talmente indiscutibile che il premier uscente, Abhisit Vejjajiva, ha riconosciuto la sua sconfitta prima ancora che i numeri la certificassero in modo sicuro. Yingluck Shinawatra ha 44 anni e ha abbandonato per buttarsi in politica il suo mestiere di manager in un’azienda dell’impero familiare guidato dal fratello, che a sua volta prima di diventare premier era stato un magnate delle telecomunicazioni e l’uomo più ricco della Thailandia. È una donna brillante e avvenente, sottovalutata dall’establishment che ha ostacolato in tutti i modi l’ascesa politica del fratello Thaksin. Il Phue Thai ha invece conquistato la maggioranza assoluta dei seggi (262 su 500), lasciando i democratici del premier uscente Abhisit, che pure godeva dell’aperto sostegno dei «poteri forti», militari in prima fila, a quota 160.
Thaksin controlla dall’esilio il suo partito, che ha stravinto tutte le elezioni dell’ultimo decennio: il carisma dell’ex premier è rimasto intatto anche dopo la condanna a due anni di carcere per corruzione inflittagli in contumacia. Gode del sostegno saldissimo della provincia, che apprezza le sue politiche di sostegno alle classi più povere, imperniate sul microcredito d’impresa e sul diritto alla sanità per tutti. A poco è valso negli anni scorsi che queste scelte venissero sprezzantemente bollate come populiste: nel 2006 i militari e la magistratura, stretti attorno al simbolo dell’anziano e ormai malfermo re Bhumibol, avevano fatto ricorso a un vero e proprio colpo di Stato per liberarsi di lui, costringendolo a scappare a Londra per evitare un processo dal verdetto già scritto.
Nel 2008, condannato l’esiliato Thaksin, il re aveva nominato capo del governo Abhisit, che non aveva mai affrontato una regolare competizione elettorale. A questa palese iniquità avevano reagito i sostenitori di Thaksin, organizzati in un movimento di piazza denominato «camicie rosse» che due anni fa era arrivato a stringere di un assedio solo in parte pacifico la capitale Bangkok.
Ne erano seguiti scontri sanguinosi al termine dei quali l’esercito aveva sloggiato i contestatori dal centro al prezzo di 91 morti.
La bella Yingluck, in qualche modo paragonabile ad Aung San Suu Kyi anche se per fortuna la Thailandia non è la Birmania, promette ora di puntare alla riconciliazione nazionale. Nonostante la maggioranza assoluta in Parlamento ha promesso di voler formare un governo di coalizione con due partiti minori, che porterebbero in dote una trentina di seggi supplementari e permetterebbero di rispedire al mittente le accuse di far ripiombare la Thailandia in un clima di muro contro muro.
Quanto all’ipotesi del rientro in patria di Thaksin, Yingluck Shinawatra aveva proposto prima delle elezioni un’amnistia che la consentisse. Ma ora lo stesso carismatico leader frena: «Voglio essere una soluzione, non un problema - ha detto - perciò saprò aspettare».
A definire i tempi dell’attesa saranno probabilmente quelli della successione a Bhumibol, che non appare lontana. Quel giorno un’era sarà finita e i militari dovranno sperare che il nuovo sovrano scelga ancora loro e i tradizionali poteri forti e blocchi l’irresistibile ascesa del «Berlusconi d’Asia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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