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Tifosi dell’eutanasia in fuga dalla legge

È necessaria o no una legge sul testamento biologico, o, per dire meglio, sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento”? Esiste o no un vuoto legislativo, o perlomeno un rischioso margine di incertezza sull’interpretazione delle norme vigenti? La sentenza della Cassazione su Eluana Englaro, seguita dal recente decreto della Corte d’Appello, oltre a dividere i giuristi e porre un delicato problema di equilibrio tra i poteri, ha bruscamente modificato le posizioni in campo. Per esempio quella di Umberto Veronesi, che oggi non è più così sicuro che una legge sia necessaria; basta basarsi sul consenso informato, sul codice deontologico dei medici, e sulla Convenzione di Oviedo. Qualche perplessità, in modo più sfumato, la esprime anche Stefano Rodotà: “Il rischio è evidente”: l’eventuale legge sul testamento biologico “può divenire l’occasione per fare un passo indietro, per restringere diritti che già ci appartengono”. Quali sono questi diritti? In primo luogo quello, affermato nel caso Englaro, di poter desumere la volontà di vivere o morire di una persona sulla base di commenti generici o persino degli “stili di vita”. In un lungo articolo su Repubblica del 19 luglio Rodotà sostiene che “stabilire la volontà della persona”, quando si trovi in stato vegetativo può essere difficile, ma si può egualmente “giungere a conclusioni univoche”. Nessun giurista, però, accetterebbe di fare a meno di volontà scritte e certificate se si trattasse di beni materiali. Ma qui tutto si compie in nome del feticcio dell’autodeterminazione, che finisce paradossalmente per condurre alla più rigida eterodeterminazione: sono altri, in primo luogo i magistrati, a decidere che tu vuoi morire di fame e di sete, e oggi qualcuno ritiene che sia persino meglio lasciare le cose nel vago, perché siano i giudici e non il Parlamento votato dagli italiani, a stabilire criteri e garanzie. L’appello alla piena sovranità dell’individuo su se stesso si trasforma così in delega agli esperti, facendoci smarrire in un labirinto decisionale di cui abbiamo perso il filo. Forse dovremmo riflettere sul fatto che l’idea di autodeterminazione si traduca spesso in un’esposizione dell’individuo all’arbitrio di nuovi poteri. Non più al riparo della zona d’ombra e d’anarchia costituita dal privato affettivo e familiare, permettiamo alla legge di entrare dappertutto, di intrufolarsi nei luoghi più intimi. Nonostante questi dubbi, ho sempre ritenuto che una legge sul testamento biologico si possa fare, partendo, per esempio, da un documento come quello prodotto dal Comitato Nazionale di bioetica presieduto da Francesco D’Agostino, e votato all’unanimità da laici e cattolici, sinistra e destra. Credo che nessuna norma possa risolvere ogni situazione e ogni doloroso dubbio, e che a volte l’eccessiva rigidità di una legge possa costituire un ostacolo, infilandosi con pesantezza, come è accaduto nel caso di Terry Schiavo, nel mezzo di un conflitto di affetti e di interessi. La morte è forse il momento dell’esistenza che ci appartiene di più, è l’istante che chiude una vicenda individuale unica, che non somiglia a nessun’altra. Se è difficile adattare a questa unicità l’astrattezza di una norma, è impensabile far rientrare ogni valutazione dentro una casistica. E non possiamo dimenticare che una decisione sbagliata, in questo campo, è senza rimedio, e si trasforma nell’orrore di una condanna a morte. Ma, tenendo conto di questi limiti, e legiferando in modo cauto e saggio, una legge si può fare.


Nessuno, tra i numerosi progetti di legge presentati in Parlamento, prescindeva dall’esistenza di un testamento scritto, di volontà certificate: adesso che questo limite è stato superato, bisogna sapere se chi era a favore del testamento biologico vuole proseguire sulla stessa strada o tornare indietro. Se davvero si vuole soltanto affermare più chiaramente il principio della libertà di cura e non aprire varchi all’eutanasia, non resta che provare a mettersi d’accordo.
Eugenia Roccella

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