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Per far notizia, certe volte basta afferrare un’idea bizzarra, trasformarla in un punteruolo e bucare la screpolata pelle dell’editoria italiana. Si estraggono così vari liquidi: dal pus ideologico alla vocazione retorica, dal buon senso al«si dovrebbe fare ma non si può» (che è tipico del sognatore deluso). Sono queste, in rozza sintesi, le reazioni alla proposta per così dire indecente di André Schiffrin, indubbiamente un esperto di editoria visto che è stato dal 1962 al 1990 «animatore» della Pantheon Books di New York (la cui storia, dalla fondazione agli anni Novanta, è raccontata in un altro libro di Schiffrin: Editoria senza editorie, Bollati Boringhieri, 2000) e poi ha fondato, nel 1991, la New Press, casa editrice senza scopo di lucro, finanziata da fondazioni private. Questa la sua idea, descritta nel libro pubblicato da Bollati Boringhieri Il controllo della parola (un titolo che contiene se non una minaccia, certamente un fantasma inquietante): affidare l’editoria di qualità a fondazioni culturali, finanziate anche con soldi pubblici. Schiffrin fa tre casi a sostegno della sua innovazione: la francese Gallimard, la tedesca Suhrkamp e l’italiana Einaudi. Insomma, l’autore vorrebbe salvaguardare i «panda» letterari dal rischio di estinzione.
Immediatamente sorgono alcuni dubbi. Primo: il denaro pubblico, che evoca spettri di controllo statalistico, di comitatoni assaltati da politici a ogni elezione, con spartizioni, quote (magari anche rosa, inteso come donne e come collane editoriali), di finanza assistita, o allegra, dove poi c’è sempre qualcuno che chiede un tornaconto (leggi: favori). Secondo: esistono davvero i presupposti per dire che quel che arriva sugli scaffali delle librerie è lontano mille miglia dalla qualità letteraria? Romanzi come Il Gattopardo o Cent’anni di solitudine hanno venduto milioni di copie perché sostenuti da fondazioni senza fine di lucro o perché lanciati da quei «capitalisti della parola» che sono gli editori? Terzo: che persone sarebbero quelle incaricate di scegliere la qualità? Persone che fino a oggi sono vissute in clandestinità o in cattività?
Ma che dicono a Torino gli stessi interessati? Ernesto Franco, direttore editoriale dell’Einaudi, dice «No grazie» e ricorda che una casa editrice non è in alcun modo paragonabile a una fondazione il cui obiettivo dovrebbe essere quello di custodire e tramandare valori. Insomma: la ricerca facciamola fare alle università e istituti affini. Franco mette il dito nella piaga: Schiffrin fa una proposta del genere perché è innamorato del passato, vero e immaginario che sia. Atteggiamento - questo lo diciamo noi - da ascrivere a un genere intramontabile: la retorica. O forse al testardo e magari infantile obiettivo di superare l’inesorabilità delle leggi economiche, queste stelle fredde che tuttavia garantiscono a noi lettori l’emozione della cultura.
Gian Arturo Ferrari, numero uno della Mondadori, da parte sua risponde sorridendo: «Il bello di una casa editrice è fare quattrini con cose che coi soldi non hanno niente a che fare». E aggiunge che sarebbe saggio non dimenticare mai il confronto col pubblico: «Se viene a mancare, si va al fallimento».
Il mercato - e quindi il suo controllo che è anche un campanello d’allarme da sentire sempre per evitare una più lugubre sirena, quella del fallimento - è essenzialmente libertà. Lo ricorda Ernesto Ferrero, un senior dell’editoria e attuale direttore della Fiera del libro di Torino: «La proposta di Schiffrin è macchinosa e impraticabile».
Ma chi, tra gli editori, se la sentirebbe di ripararsi sotto l’ombrello di una fondazione? «Io credo nel mercato», spiega il sinistrorso Carmine Donzelli (ed ex Einaudi). Il quale aggiunge: «Non voglio sovvenzioni, però vorrei un mercato vero dove poter misurarmi con la forza delle mie idee e dei miei prodotti». Qualcuno potrebbe obiettargli: signor Donzelli, il mercato è truccato? E se sì chi sono i colpevoli? Ma questo porterebbe lontano. Cesare De Michelis, editore (titolare della Marsilio) e docente universitario, ricorda maliziosamente che André Schiffrin vendette la sua Pantheon Books a un prezzo superiore rispetto alle valutazioni, «e non se ne lamentò affatto». De Michelis è quanto mai spietatamente lucido: chi fa un prodotto o guadagna o perde. Vie di mezzo non ce ne sono, almeno di oneste, altrimenti si fa come Pierino che voleva andare al mercato senza mani e senza piedi e tornò senza denti. E ricorda che una collana di enorme qualità, i Meridiani, la pubblica proprio il «cinico Mondadori».

E a proposito del colosso di Segrate perché mai dimenticare che la casa dello Struzzo, l’Einaudi, andò in crisi non tanto perché non aveva libri di grande qualità quanto perché il clan di Giulio Einaudi non sapeva fare una buona gestione? Lo Struzzo entrò nell’orbita della Fininvest, dopo che alcuni possibili interessati (banche comprese), come dice De Michelis, «scapparono a gambe levate». Le fondazioni culturali paiono dunque una chimera. Anche per chi si è sempre collocato a sinistra come lo storico della letteratura italiana Alberto Asor Rosa. «Dio ce ne scampi», dice.

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