Il tramonto dei «neocon»

Fermi tutti, forse gli Stati Uniti hanno esagerato. Anzi, fermi loro, i neoconservatori, che di quegli eccessi sono stati i responsabili. Giunto ormai alla fine del quinto anno di presidenza, George Bush sorprende il mondo e cambia rotta. Dimenticate l’America arrembante, che ambiva ad esportare la democrazia, anche con la forza, in ogni Continente. Era un bel sogno, il suo: via le dittature, le ingiustizie, le oppressioni; sostituite - in un battibaleno naturalmente - dalla libertà, dal progresso, dal rispetto dei diritti umani. Erano - sono - degli idealisti i «neocon» e qualche merito, senza dubbio, ce l’hanno: hanno costretto gli Usa ad abbandonare il loro pluridecennale immobilismo nel mondo arabo, che ha garantito la stabilità dei regimi amici, ma inibito lo sviluppo sociale, favorendo la riscoperta dell’integralismo islamico (e del terrorismo), quale unica risposta alla povertà e alla frustrazione. Ma il loro disegno si è rivelato troppo ambizioso, precipitoso; certo non compatibile con gli interessi della superpotenza da cui dipendono gli equilibri sulla terra.
Si imponeva un cambiamento di rotta. Colin Powell ci ha provato fino allo scorso gennaio. Un eroe, senza dubbio; ma inascoltato nell’era, furente, della risposta all’11 settembre. Oggi Powell non è più segretario di Stato, il suo posto è stato preso da Condoleezza Rice, per quattro anni Consigliere alla Sicurezza nazionale. Per lei Bush stravede, con lei ha trascorso la maggior parte del suo tempo, sviluppando un rapporto di stima, amicizia, fiducia. Per 4 anni, come spiega il politologo David Rothkopf della Carnegie Foundation, nessuno ha capito con chi stesse veramente «Condi»: «Con me», pensava la colomba Powell; «Con noi» giuravano i falchi dell’Amministrazione. Intelligente ed enigmatica. Così quando, nel gennaio scorso, è stata scelta per guidare la politica estera Usa, molti hanno pensato a un’operazione cosmetica. La sua «diplomazia del sorriso», sarebbe servita a migliorare l’immagine dell’Amministrazione, senza modificarne le modalità operative.
Ma George Bush è un texano, per il quale il lavoro, alla fine, si giudica in base ai risultati. La Rice altrettanto pragmatica e straordinariamente spregiudicata. Lui, appena vinte le elezioni, si è reso conto che il quadro costantemente ottimistico tracciato da alcuni suoi stretti collaboratori sulle prospettive in Irak, era in realtà irrealistico. Lei ha capito che il presidente non poteva rinnegare quanto fatto fino a quel momento e che bisognava elaborare una nuova strategia.
Giorno dopo giorno quella strategia ha preso forma. Leggetevi i discorsi di «Condi» e di Bush. L’America ha rinunciato ai suoi obiettivi? Nemmeno per idea. Continua a lottare contro la tirannia e il terrorismo e a promuovere, ardentemente, la diffusione della democrazia e dei diritti umani. Ma fino a ieri i toni erano ultimativi, l’impazienza evidente, i tempi rapidissimi: si contava sull’effetto domino per forgiare nel giro di pochi anni un nuovo Medio Oriente. Ora invece si parla di «impegno generazionale», di «trasformazioni che richiederanno molti anni e su più fronti: diplomatico, culturale, economico», di «stretta collaborazione con gli alleati di sempre: gli europei». Le parole «forza» e «guerra» sono sparite.
Una svolta dettata anche da una necessità pratica: oggi l’America non può permettersi di aprire un altro fronte, perlomeno non fino a quando l’Irak non sarà pacificato. La guerra dura da tanto tempo, costa cifre esorbitanti, richiede l’impiego, a rotazione, di gran parte delle forze disponibili: soldati, riservisti, guardia nazionale. E, per la prima volta dal Vietnam, l’esercito ha difficoltà a reclutare i giovani. Questo non significa che la Sicurezza nazionale sia a rischio, significa che gli Usa possono sostenere un altro conflitto solo in caso di assoluta necessità.
Ecco che allora il quadro si delinea: secondo autorevoli esperti strategici di Washington, come Richard Russell della National Defense University, nei prossimi tre anni Bush non userà la forza. Certo non contro la Siria, né contro la Corea del Nord e nemmeno contro l’Iran, nonostante i timori sul suo programma nucleare. I marines resteranno in Irak «perché non si può cedere di fronte all’intimidazione e al terrore».
È un’America che torna a privilegiare alcune sue virtù storiche, come la sua capacità di includere, anziché escludere, gli Stati amici; dunque di creare consenso e rispetto attorno a sé; di attribuire alla crescita della società civile la stessa importanza accordata al rispetto delle libertà politiche nei Paesi oppressi o sottosviluppati. Un’America che capisce di poter promuovere il cambiamento attraverso i grandi organismi internazionali: si spiegano così le nomine di Paul Wolfowitz alla Banca Mondiale, di Christopher Bancroft vice segretario generale dell’Onu, di Ann Veneman alla guida dell’Unicef.
Un’America che assomiglia sempre di più a Condoleezza Rice; che è brava e ultimamente anche fortunata: alla Casa Bianca è l’unica tra i consiglieri a non essere finita nei guai. Il ministro della Difesa Donald Rumsfeld e il vicepresidente Dick Cheney sono stati ridimensionati dalla guerra in Irak da loro voluta; lo stratega politico Karl Rove è coinvolto nel «Ciagate»; il capo della segreteria, Andrew Card, è azzoppato dal calo di popolarità del presidente. In questo momento Bush ascolta soprattutto «Condi».

E lei giustamente ne approfitta, rafforza la sua galassia che include Steve Hadley, Consigliere della Sicurezza nazionale, i suoi due nuovi vice al Dipartimento di Stato Nicholas Burns e Robert Zoellick; nonché esperti come Meghan O’Sullivan e Stephen Krasner.
Gente brillante, preparata e soprattutto realista, ben diversa dagli immaginifici «neocon».
marcello.foa@ilgiornale.it

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