La trappola dei tabù

Le freddure hanno lasciato il campo alla volgarità e al grottesco. Il dogma del multiculturalismo ha messo il bavaglio e avvelenato l’etica del sorriso

Tony Damascelli

C’era un signore, sorry un barone, che quest’estate girava, tronfio, per la spiaggia di Gallipoli esibendo una candida maglietta sulla quale c’era scritto: «I have the body of a God». Ho il corpo di un Dio. Ora il nobile in questione è di stazza bella tonda, una XXL di quelle estreme. Per completare lo slogan, nella riga al di sotto della prima dicitura, così era scritto: «Unfortunately it’s Buddha». Purtroppo trattasi di Budda, visto il rigonfiamento della trippa.
Ora la maglietta era di squisita idea british anche se manufatta altrove. L’accenno chiaro alla taglia del «Risvegliato» avrebbe potuto provocare allergie e reazioni sghembe, infatti il défilé durò lo spazio di un mattino, pure tra qualche sguardo strano e borbottio preoccupante.
Bei tempi, si potrebbe pensare e, osando, anche scrivere guardandosi con circospezione tutt’intorno. Stando ben attenti cioè alle PC brigade, come ormai viene chiamata, per scherzo e fantasia, la «polizia del political correctness». Siamo alla frutta, al dessert, al cheese and port, in senso buono.
L’Inghilterra ha paura di sforare, di tracimare dal Tamigi, di urtare le menti pure. Dio non salva soltanto la Regina ma deve badare a salvare la vita e l’umore dei sudditi tutti, perché il nemico è dietro l’angolo, sotto terra, nel senso di underground-linee metropolitane, sui red bus ma si nasconde anche nei pub e nei circoli privati, laddove un tempo si poteva scherzare di ogni, dai Windsor in giù. Oggi tra un colpo di tosse e una gota rubizza, si mette la palla in corner.
La scorsa settimana circolava a Londra una barzelletta assai audace. Una terrorista islamica, coperta dal burka, indossando un abito in un camerino di prova nei magazzini Harrod’s, così domandava all’amica: «Non sono una bomba?». Apriti Buckingham, ci sono state proteste, pure qualche telefonata anonima, perché di tutto si può dire, scrivere, insultare ma l’Islam e dintorni no, please.
Bei tempi quelli di Spike Milligan. Fu lui, di origini indiane ma di padre irlandese, a scrivere la più bella storiella del mondo, anno 1951: «Due cacciatori si trovano in un bosco e improvvisamente uno dei due crolla a terra. Sembra che non respiri più, lo sguardo è assente. L’amico va al telefono e chiama i soccorsi, urlando: il mio amico è morto, è morto! Che cosa posso fare? E dall’altra parte, una voce risponde: si calmi, la prego, prima di tutto si rassicuri che il suo amico sia realmente morto. Segue un attimo di silenzio, quindi si sente un colpo di fucile: tutto ok. E adesso?».
La storiella ha vinto, cinquant’anni dopo, il primo premio. C’era dentro, la storiella non il premio, davvero tutto lo spirito made in England, per l’assurdità, per la semplicità del dire, l’immediatezza del fare. Roba che sta finendo in soffitta o a Portobello. Perché anche la grande festa natalizia andrà riletta e riscritta. Sapete tutti che già a novembre, a Londra e nel resto dell’isola, spuntano Santa Klaus, le renne, la slitta, si accendono le luci in tutte le strade, insomma c’è profumo di Natale. Ma stanno cambiando le insegne, correggendo la dicitura, non più Christmas Light bensì Festive Light o al massimo Holiday Light, Cristo è con noi ma non con gli altri, dunque meglio evitare provocazioni e insinuazioni.
Il political correct è la cosa più ridicola del nuovo umorismo made in Great Britain, lo dicono gli inglesi ma a mezza bocca, timorosi.

Mister Bean o Benny Hill, i Monthy Python (avete presente il discorso della zucca e Brian di Nazareth?, Immaginate la stessa cosa con altre religioni? Chiedete informazioni a mister Rushdie) appartengono a una razza in via di estinzione.
Disse un giorno Lawrence Olivier: «Come la maggior parte dei miei compatrioti ho la ferma convinzione che Dio sia inglese e che molto probabilmente Gesù Cristo abbia studiato a Oxford». Un giorno lontanissimo.

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