da Milano
C’è un collaboratore di lusso che Repubblica tiene nascosto, relegato alle cronache locali o in uno scantinato del sito internet. Come se avesse Kakà e lo tenesse sempre in panchina. Non solo, appena può gli dà delle grandi legnate in testa, per mano del suo vicedirettore con delega sulla giudiziaria. Una cosa normale? Certo, i lettori di Repubblica possono leggere Marco Travaglio ogni domenica, ma solo quelli torinesi. Lì ha una rubrica settimanale dove risponde a una lettera (con il vezzo di un autoritratto firmato dal disegnatore Mannelli), su questioni di varia umanità cittadina: i grattacieli che rovinano Torino, le barriere architettoniche a Racconigi, il sindaco. E i processi? E i corrotti in Parlamento? E i deputati amici dei mafiosi? Di quelli Travaglio parla ad Annozero, da Fazio, sull’Unità, su Micromega, nei libri con Gomez, quasi mai su Repubblica. Una rapida ricerca nell’archivio del quotidiano e viene fuori che i pezzi scritti da Travaglio nell’ultimo anno, lasciata fuori la rubrica torinese, sono solo sette. In media tre quarti di articolo al mese. Poi c’è il suo blog su Repubblica.it, «Carta canta», una collezione di ipse dixit politici, puro esercizio di archivistica di cui Travaglio ha fatto un’arte. Ma il suo contributo al quotidiano si ferma qui. Si direbbe quasi lo abbiano dimenticato. Eppure è a libro paga, stipendio mensile, come collaboratore fisso delle testate del gruppo Espresso.
E allora, da quale scrivania di Repubblica è partito l’editto bulgaro? Nei corridoi del quotidiano romano molti indicano nel vicedirettore Giuseppe D’Avanzo, grande firma del giornalismo investigativo italiano, il regista dell’«epurazione» travagliesca. Chi ha letto il furente scambio di lettere tra i due su Repubblica di ieri non faticherà a crederlo. Travaglio risponde all’articolo del giorno prima in cui D’Avanzo, in sostanza, gli dava del manipolatore. La replica strabocca di risentimento: «Ringrazio D’Avanzo per la lezione di giornalismo...». Per parte sua D’Avanzo non solo ripropone la lezione sul metodo scorretto utilizzato da Travaglio, dandogli di nuovo del bugiardo, ma spara una cartuccia di calibro pesantissimo. Un esempio di manipolazione alla Travaglio: un’intercettazione di una telefonata tra Marco (Travaglio) e Pippo, ovvero Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria condannato a 4 anni e 6 mesi per collusione con la mafia. Se facessi come fai tu ti dovrei dare dell’amico dei mafiosi, è il messaggio del vicedirettore al «suo» collaboratore.
Ma la guerra fredda tra D’Avanzo e Travaglio, raccontano, scoppia molto prima, sul caso Sofri, quando si comincia a porre la questione della grazia, intorno al 2000 (per questo stesso motivo scoppia anche l’odio feroce con Giuliano Ferrara). Sull’ex leader di Lc Travaglio è colpevolista, D’Avanzo innocentista. Travaglio era quello che sul Borghese, il giorno dopo l’arresto di Sofri, aveva pubblicato a puntate l’integrale delle intercettazioni agli esponenti di Lotta continua. È in quel momento, con lo scontro su Sofri, che finisce la luna di miele fra Travaglio e la sinistra rappresentata da Repubblica, giornale dove Travaglio era stato assunto nel 1998 per un «debito d’onore» di Ezio Mauro. Quale debito? Si dice che Ezio Mauro avesse promesso a Travaglio, allora free lance a spasso da tre anni dopo la chiusura della Voce di Montanelli, un’assunzione a Repubblica. Aveva stima di quel cronista messosi in luce per i suoi ottimi agganci nella Procura torinese, per l’amicizia con i magistrati più importanti: Giancarlo Caselli, Marcello Maddalena. Di mezzo c’era anche quel libro scritto da Travaglio nel ’97 su Cesare Romiti, Il processo, non proprio elogiativo. «Questo, alla Stampa, non lo assumeranno mai», avrebbe detto l’allora neodirettore di Repubblica. Ecco quindi che Travaglio entra nel giornale di Mauro come redattore ordinario, al minimo sindacale senza nemmeno contratto integrativo. Segue la giudiziaria ma continua il lavoro sui libri.
paolo.bracalini@ilgiornale.it
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