Le «liberalizzazioni» del governo Prodi (tassisti, notai, avvocati, panificatori, trasferimenti di conti correnti, qualche intervento sulle assicurazioni e poco più) contengono qualche aspetto interessante e molte furberie ineleganti. Ma la reazione del centrodestra è impacciata: ora per l'imbarazzo di apparire difensori di posizioni corporative, ora per la rabbia perché si colpiscono, senza consultarli, solo settori del ceto medio, mentre l'esecutivo esprime verso le confederazioni sindacali un atteggiamento che dire servile è poco.
Con l'imbarazzo e la rabbia, però, si fa poca strada: il problema è l'iniziativa politica. Per promuoverla bisogna fare i conti con un dilemma: l'Italia ha bisogno di liberalizzazioni. Ma l'idea di punire i ceti medi, settore come pochi altri laborioso e collante fondamentale della società, non è accettabile. Come superare l'impasse? Innanzi tutto facendo quello che non ha fatto il governo Prodi: consultando le categorie colpite, e preparando con queste una strategia che non ostacolando le liberalizzazioni, faccia sì che il costo della manovra non s'abbatta pesantemente sui settori interessati. Com'è possibile? Innanzi tutto si deve agire con la leva fiscale, identificando i danni che si infliggono con i nuovi provvedimenti e annullandoli, o almeno contenendoli, con mirate riduzioni fiscali per i settori interessati (tassisti, farmacisti e così via), almeno per un certo numero di anni. Dopo ci si augura il ritorno di un governo di centrodestra che le tasse le diminuirà in modo generalizzato. Altro modo per contenere i danni può essere assicurare ai «colpiti» alcune garanzie: più facile accesso alle nuove licenze per i tassisti che già ne possiedono una, nuove possibilità d'iniziativa per notai, farmacisti e così via. Infine l'appello ai ceti medi colpiti da Romano Prodi deve avere un cuore politico: se il centrosinistra diventa espressione dell'egemonia delle grandi centrali sindacali (e le nomenklature sindacali dominano oggi gli snodi di comando del centrosinistra: da Franco Marini a Fausto Bertinotti, da Cesare Damiano a Sergio D'Antoni), con la complicità di parti della Confindustria che difendono soprattutto le grandi imprese e ancor più il potere di un malandato establishment italiano, influente grazie alla grande stampa di sua proprietà, i vari ambienti del ceto medio devono «mettersi a fare politica», non tanto nell'ottica di difendere assetti corporativi che non possono durare a lungo, ma di impedire che verso di loro si applichi una strategia generalizzata di demonizzazione colpendo oggi certe garanzie, domani i contributi dei lavoratori autonomi, dopodomani il risparmio finanziario. Per passare all'attacco, per difendere i loro diritti, che non sono privilegi, i ceti medi devono porsi il problema di liberalizzare «veramente» tutta la società: il pubblico impiego, la scuola e l'università, la magistratura, i poteri impropri e centralistici delle confederazioni sindacali, i privilegi delle grandi imprese, le paralizzanti influenze politiche e mediatiche delle grandi banche.
Combinando difesa liberalizzatrice degli interessi dei ceti medi e loro mobilitazione per riforme più ampie, il centrodestra può sventare i tentativi, che si moltiplicano in questi giorni, di dividerlo.
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