«Trent’anni a Stasi». Ed è giallo su un sms

«Trent’anni a Stasi». Ed è giallo su un sms

MilanoNel groviglio di verità e controverità dei tanti delitti da telerotocalco offerti dalla cronaca italiana, ecco che anche per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco arriva l’offensiva della Procura generale di Milano che punta a ribaltare la certezza già messa nero su bianco: Alberto Stasi, assolto con formula piena in primo grado dall’accusa di avere assassinato brutalmente la sua fidanzata, per l’accusa invece è colpevole. E va condannato a trent’anni di carcere per omicidio aggravato.
Dura sei ore, la requisitoria del sostituto procuratore generale Laura Barbaini. Alberto è in aula. In aula sono i genitori di Chiara, quelli che lo vollero accanto a loro il giorno dei funerali e che ora puntano risolutamente il dito contro di lui. Entrambi conoscono a menadito ogni riga delle migliaia di pagine del fascicolo, perché per entrambi la morte di Chiara è lo spartiacque che ha cambiato per sempre le loro vite. Eppure ascoltano senza perdere una sillaba la ricostruzione lunga e complessa della rappresentante dell’accusa.
Per la Procura generale non è un compito facile perché deve offrire ai giudici, e soprattutto ai sei giurati popolari, due certezze apparentemente inconciliabili. La prima è: ci sono elementi sufficienti per condannare Alberto. La seconda è: bisogna riaprire l’istruttoria, fare nuove perizie sulla scena del crimine, su quelle macchie di sangue rimaste intonse dalla camminata di Alberto. Perché servono nuove indagini, se ci sono già le prove per condannare? Per spiegarlo, la dottoressa Barbaini si addentra nel sentiero impervio in cui si valutano gli indizi, il loro peso specifico, e dove si forma il «libero convincimento» del giudice. È qui, per la Barbaini, che si forma la prova della colpevolezza di Alberto. Per questo la pubblica accusa offre alla Corte d’assise d’appello due scelte: condannare Stasi, senza che servano altri accertamenti; oppure, se la giuria non riterrà di condividere le certezze della Procura, ordinare nuove analisi.
Gli elementi sono gli stessi su cui si è consumata un’inchiesta durata due anni, che un anno fa avevano portato il giudice preliminare di Vigevano, Stefano Vitelli, ad assolvere Stasi: le gocce di Dna sui pedali della bici, le lacune del racconto. Spunta, a dire il vero, un dettaglio nuovo, il piccolo mistero di un sms che Stasi mandò trenta ore prima del delitto ad un amico di Loano, e che entrambi cancellarono. E un’ipotesi nuova fa capolino nella ricostruzione dell’accusa sul punto cruciale delle biciclette che appaiono e scompaiono dalla scena del delitto. Dice la Barbaini: Stasi potrebbe avere usato due bici diverse, una per andare ad ammazzare Chiara, un’altra per tornare più tardi sul luogo del delitto - cambiato e ripulito - e fingere di scoprire il corpo della ragazza. Ma non spiega, questa ricostruzione, quale santo abbia potuto consentire ad Alberto di attraversare sulla via principale il paese, nel cuore di una mattina di agosto, e tornare indietro sporco di sangue, senza che nessuno lo vedesse.
E poi, il movente: nel ricorso che ha portato al giudizio di appello, la Procura generale era tornata ad insistere sul tema della pornografia, la passione incontrollabile di Alberto, quella che lo ha portato sotto processo anche per detenzione di materiale osceno, e che sarebbe stata la causa scatenante della lite con Chiara. Ma le carte dicono che questa passione di Alberto era alla sua fidanzata nota da tempo, e per vari aspetti condivisa, come testimoniano i video - ingenui e innocui, se guardati con occhi non morbosi - in cui i due fidanzati incidevano i loro momenti di intimità. La pubblica accusa se ne rende conto, e così ieri, in aula, nell’incedere della sua ricostruzione, la Barbaini (così almeno racconta chi era in aula, perché il pubblico e la stampa non sono ammessi) arriva a dire che un movente non c’è. Non è indispensabile che ci sia, dice la legge, e di imputati condannati per delitti senza un perché sono densi gli archivi giudiziari.

Ma in un caso opaco e sfuggente come quello di Garlasco, l’assenza di un movente forse peserà sulla scelta dei giurati, quando il 6 dicembre dovranno emettere la sentenza che dirà una nuova verità sulla morte di Chiara.

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