Il trionfo di Giorgio lastricato di vittime a sinistra

Il voto per il Colle ha stroncato anche le ambizioni di Giuliano Amato mentre Rutelli ha dato le carte a tutti. Sul fronte opposto Berlusconi è riuscito a tenere unita la Cdl e Bossi a risultare determinante

Luca Telese

da Roma

Bettino Craxi, quando gli capitò di vedere eletto sul Colle, (e soprattutto contro la sua volontà) il socialista che amava di meno - Sandro Pertini - rispose a chi gli chiedeva se considerasse una sconfitta il successo del presidente partigiano: «Averne di sconfitte come queste!». Piero Fassino, in una condizione molto simile, non può rispondere con altrettanta leggerezza e ironia, se non altro perché non è premier, non lo sarà mai, e in queste ore rischia di giocarsi persino il posto da vice (opzionato da Massimo D’Alema come «premio di consolazione»).
Ed è indubbio che Giorgio Napolitano è un diessino che alla fine di una lunghissima carriera si ritrova ad essere «pertinizzato» e «angelicato», amato e rispettato dalle sinistre, lui che nel Pci era sinonimo di «destra». Proprio da lui, quest’anno, ai dirigenti del Botteghino erano arrivate due sciabolate micidiali: la clamorosa firma sull’ordine del giorno di Cesare Salvi che nella direzione dei Ds chiedeva moralità e lotta agli sprechi per i dirigenti del Botteghino, e poi - ancora più letale per Fassino e Massimo D’Alema - la presa di posizione netta con cui i leader dell’ala socialdemocratica diessina stroncavano l’operazione Unipol definendo avventato il comportamento dei dirigenti di partito. E dunque bisognerà raccontarla questa storia strana, il paradosso di un partito che proprio mentre manda il suo più prestigioso senatore al Quirinale è attraversato dal timore di aver perso e che vede i suoi due leader più importanti nel borsino degli sconfitti nella sfida del Colle. Eppure il paradosso di ieri era questo: la ragione sociale dei Ds è ormai così identificata con i destini dei suoi due principali dirigenti (un tempo erano i partiti che decidevano le carriere, ora sono le carriere a fare e disfare i partiti), che lo Stato maggiore della Quercia si sente politicamente scavalcato da una candidatura che ha trovato il suo pilastro nella sponda centrista della coalizione, e anagraficamente umiliato da un evergreen ottantenne che ancora una volta mette in mora gli ex baby boomers dai capelli brizzolati, i raffinatissimi strateghi che non vincono mai una guerra.
Certo, la versione ufficiale ieri era un’altra: «grande gesto di responsabilità» di D’Alema (un altro, dopo la «rinuncia» alla Camera) e «grande soddisfazione per l’elezione di Napolitano» (Piero Fassino). Ma poi bastava leggere la Velina rossa di Pasquale Laurito (il giornalista da sempre più vicino al leader maximo) per rendersi conto di quello che sta accadendo, un ritratto del neopresidente che pareva scritto con il pennino intinto nell’acido muriatico, un moto di stizza per il coro di ritratti elegiaci suscitato da Napolitano sui quotidiani: «Non si può stare al gioco della litania giornalistica - si lamentava Laurito - che lo vorrebbe dipingere come un liberal del Pci». Seguivano ricordi velenosi addirittura retrodatati al 1956 per attribuire a Napolitano la qualifica di «carrista» (gli fu data, secondo Laurito, per aver preso il posto di Antonio Giolitti in direzione dopo l’invasione dell’Ungheria) e appassionata difesa di D’Alema, ingiustamente (sempre per Velina) inchiodato al clichè di «ex comunista». Ha vinto la Rosa nel pugno, con il suo niet determinante (al pari di Antonio Di Pietro). E Marco Pannella spiega: «Noi... del club degli ottantenni vinciamo perché ormai siamo biologicamente selezionati. I cinquantenni diessini perdono perché qualunque cosa siano, la loro radice è antiliberale».
Lui, Napolitano, si smarca con eleganza dalla disputa: dice che ha trovato D’Alema «come sempre lucido e nel suo modo peculiare appassionato», «ma in nessun momento vittima di alcunché». Ieri uno dei cinquantenni della Quercia, sotto garanzia di anonimato si sfogava: «Abbiamo iniziato a fare politica trent’anni fa contro Napolitano, e ora, dopo un quarto secolo, è lui la nostra bandiera al Quirinale!». Già: anche perché qualcuno ha già fatto i conti: per i prossimi quindici anni nessun altro diessino salirà sul Colle, la premiership è nelle mani di un cattolico come Romano Prodi (grande tessitore dell’operazione), Palazzo Madama di un ex Ppi, Francesco Rutelli ha dato le carte a tutti ed è il prossimo in lista d’attesa per l’Olimpo delle carriere istituzionali. È andata male anche a Giuliano Amato, condannato a restare (per ora) «riserva della Repubblica», e a Ciampi, che dopo mesi di dinieghi ha scoperto la freddezza dell’Ulivo proprio quando ci faceva un pensierino.

Silvio Berlusconi è riuscito a far fare quadrato alla Cdl (ancora una volta), Pier Ferdinando Casini non è riuscito a smarcarsi (almeno stavolta). Umberto Bossi continua a essere determinante. Walter Veltroni seppellisce così i suoi due fratelli-coltelli della Quercia e apre la pista al partito democratico. Ma il vero trionfatore è un «ragazzo» degli anni Venti.

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