La troppa libertà rende schiavi (del sesso)

nostro inviato a Venezia

Gli basta uno sguardo per turbare una ragazza in metropolitana. O poche, consumate parole, per sedurne un’altra al ristorante, vincendo la concorrenza del suo capo, e impalmarla in un vicolo semibuio. Per Brandon, trentenne single, il sesso è un’ossessione. Ma è anche una forma di potere. Che poco alla volta finisce per dominarlo. Sesso immaginato, guardato, consumato con prostitute. Una dipendenza tanto più compulsiva in quanto vissuta in assenza di rapporti che abbiano una qualche parvenza di umano. Un gioco. Un tormento. Una schiavitù. Nella lenta, progressiva e disperata discesa agli inferi nella quale continua a scivolare, una sola volta l’elegante giovanotto che a New York si divide tra ufficio e locali notturni, sembra fermarsi. C’è una ragazza di colore che lo attrae e incuriosisce. Gli altri rapporti sono impersonali, meccanici, strumentali. Questo no, contiene una primizia di sentimento, un barlume d’amore. Ma proprio quell’unica volta il nostro erotomane fallisce clamorosamente. E, per ritrovarsi, deve recuperare immediatamente l’ennesima consumazione mercenaria.
Presentato ieri in concorso, Shame (Vergogna) del regista londinese Steve McQueen è finora il film più scandaloso della Mostra. A parte il nudo frontale del protagonista (ancora un convincente Michael Fassbender) che ha piacevolmente colpito il pubblico femminile, nei 99 minuti della pellicola sfila un intero campionario di amplessi, unioni a tre, sperimentazioni omosessuali. Lento, con pochi dialoghi e molti primi piani, Shame è un tipico film da festival che, a differenza del precedente Hunger dell’abbinata McQueen-Fassbender (premio Caméra d’Or a Cannes 2008), ha già trovato distribuzione in Italia con la Bim e, secondo i primi rumors, potrebbe ambire a qualche premio, magari per il ruolo dell’attore protagonista. Eppure, ha rivelato Fassbender, «non ero a mio agio nel recitare tutte quelle scene di sesso. Per fortuna non bisogna ripeterle più volte». Storia vera? «No, il mio protagonista non è ispirato a nessuna persona reale», ha risposto il regista, noto anche come autore di arti contemporanee. «Volevo un personaggio che sembrasse aldilà di qualsiasi possibilità di redenzione. Non ci sono ispirazioni biografiche. Il protagonista è frutto di fantasia. La nostra fonte sono stati gli incontri con persone che vivono forme di dipendenza dal sesso, dalla droga, dal gioco. Dipendenze sempre più radicate nella nostra civiltà, anche grazie a internet». Quanto al titolo, ha spiegato la sceneggiatrice Abi Morgan, «l’abbiamo scelto perché era una parola spesso ripetuta da queste persone, il vero motivo per cui non ne parlano agli altri».
Anche Brandon non ha la forza di parlare con qualcuno della schiavitù che lo soggioga 24 ore al giorno. In ufficio, il suo computer è una giostra di siti porno. A casa trascorre il tempo online per dialogare con altre pornostar e trovare stimoli inediti per le sue masturbazioni. Tra un posto e l’altro ci sono solo quei tragitti in metropolitana... Quando poi gli chiede ospitalità la sorella minore (Carey Mulligan) che fa la cantante e desidera una vita più serena senza la droga, la sua deriva autodistruttiva accelera in un degrado che passa anche per l’esperimento omosessuale. Fino al disperato grido finale che prelude a un riscatto.
La metropoli, vero personaggio aggiunto del film (toccante la versione blues di New York New York della Mulligan) è una città livida, piovosa, desolata, distante e vitale. Ci si può vivere dentro restando tremendamente soli. «L’ho scelta perché è il posto degli eccessi», ha spiegato ancora il regista. «E dunque funzionava perfettamente come sostegno alla storia.

Che è una storia che ha al centro il tema della libertà. Volevo dimostrare come tanta libertà, anzi, una libertà mal vissuta, può trasformarsi in una prigione dalla quale è difficile uscire». Se questa era l’intenzione, bisogna dare atto al regista di esserci riuscito.

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