In troppi credono di potersela cavare davvero «aggratis»

Caro Granzotto, viviamo giornate tremende: lo sconquasso della Grecia, la politica ormai ridotta a beghe e baruffe da portinaia, un signor ministro che si dice indignato perché qualcuno gli ha pagato di nascosto metà dell'alloggio, D'Alema che manda a farsi fottere il nostro condirettore... e come non bastasse, nonostante ci avessero promesso il riscaldamento globale seguita a far freddo e a piovere che Dio la manda. Per evadere da questo schifo di clima non solo meteorologico, propongo una di quelle questioni che lei definisce ricreative, grato se vorrà darmene risposta. Riguarda l’uso dilagante della forma «a gratis» in luogo di «gratis», udita mille volta alla radio e televisione (l’ultima: «L’istruzione è una cosa che il cittadino dovrebbero avere di diritto a gratis» - e letta altrettanto volte sulla stampa quotidiana e ebdomadaria. «A gratis» è, come io sostengo, forma scorrettissima o secondo lei ha una qualche dignità linguistica? Nell'uno e nell'altro caso, perché ha tanto successo?
Roma
Certo che ce ne ha messo, caro Roberti, per venire al dunque. Però non poteva dir meglio a proposito dello «schifo di clima», ovviamente non solo meteorologico, che ci tocca sopportare. Ormai da piacere qual era, la rituale lettura mattutina dei giornali è diventata occasione di continui crucci. Tanto che ebbi la tentazione di abbonarmi al Canberra Times e disintossicarmi non leggendo per un mese che quel quotidiano. Ma veniamo al dunque: bisogna avere carattere di ferro per non farsi coinvolgere dai luoghi comuni verbali, dalle parole «alla moda». Da confronto, territorio, declinare (non nel senso di volgere al declino o digradare, ma in quello burocratico di esplicitare - «declinare le generalità» -, è diventato un jolly della parlata chic), nello specifico, problematica (problemi non ce ne sono più, solo problematiche), percorso, realizzare (in luogo di capire) io mi tengo puntigliosamente alla larga e dovrebbe venir giù il Colosseo prima che mi rassegni a pronunciarli o a scriverli. Lo stesso dicasi per «a gratis» e le sue versioni più becere, «aggratis» e «aggratisse». Non tutti sono così sicuri che «a gratis» sia un errore. D’accordo che «gratis» è forma contratta del latino «gratiis» e dunque «grazie ai favori, alla condiscendenza», ciò che escluderebbe la preposizione «a», lì per esprimere la modalità in cui una azione si compie. Però, essi sostengono, in fondo non si dice, correttamente, «a ufo», «a sbafo», «a pagamento» (e una volta «a grato»)? Considerazione delle quali i puristi se ne fanno un baffo, insistendo nel ritenere «a gratis» una scorrettezza da matita blu. I semipuristi, i linguaioli di manica larga che poi ormai sono la maggioranza, ritengono invece che «a gratis» sia al massimo un malvezzo, tollerabile nella parlata familiare, e accettabile in quella colta, quando è detto o con ironia o con finalità espressive. Peccato che nella frase da lei riportata, caro Roberti - «L’istruzione è una cosa che il cittadino dovrebbero avere di diritto a gratis» - non traspaia, nemmeno alla lontana, la vena ironica o la scelta, l’intento espressivo. Chi ha pronunciato quel giudizio è fermamente convinto che «a gratis» sia la forma corretta di «gratis». E credo che di ciò sia convinto il novantanove virgola nove per cento di quanti pronunciano «a gratis». Ma dobbiamo prendercela per questo, caro Roberti? Per una puntura di spillo alla martoriata e massacrata materna nostra lingua? No, non ce la prenderemo. Abbiamo voluto fare solo un po’ di ricreazione e l’abbiamo fatta a gratis, anzi, aggratis. E suona già la campanella che ci richiama alla realtà, allo «schifo di clima» del quale e seppure obtorto collo dobbiamo occuparci (concordo con lei: spiace che gli Al Gore e i terroristi climatici ci abbiano raccontato tutte quelle panzane.

Un bel riscaldamento globale tornava proprio a fagiolo. E invece tocca battere i denti e bagnarsi fino alle ossa. Io proporrei una class action contro quegli imbroglioni, così coi soldi ci si compra il cappotto nuovo).

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