
«Forse qui dentro c'è persino troppo», dice Maurizio Cattelan, completo blu stropicciato, abbronzatissimo, occhiali da sole e l'aria da eterno ragazzo (chi direbbe che a settembre farà 65 anni?). Nella Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione, in una Bergamo Alta infarcita di turisti, l'artistar padovano cammina a grandi falcate davanti a November, una scultura di un paio di anni fa in marmo statuario di Michelangelo da cui, grazie a particolare dispositivo, esce dell'acqua: è l'immagine di un homeless che si urina addosso. «Pensavo fosse giusto mettere un segno di marginalità in un luogo così», dice e il riferimento è che questo spazio dove, al tempo della Repubblica di Venezia, si amministrava la giustizia. L'eco delle notizie degli ultimi giorni la sua Comedian (una banana fissata con nastro adesivo alla parete), acquisita all'asta per 6,2 milioni dall'imprenditore cinese Justin Sun, è stata da lui donata a Ross Ulbrich, magnate del digitale finito in prigione in Usa e poi graziato per uso improprio delle criptovalute qui non arriva. Davanti ai (tanti) microfoni, Maurizio Cattelan gigioneggia parecchio, come capita a chi in fondo è a disagio, pur essendoci abituato, a stare al centro della scena. Gli chiediamo a bruciapelo qualcosa sul volto dell'uomo scolpito: «Sì, è Lucio (suo storico amico e collaboratore, ndr), è un omaggio a lui», dice. Neanche il tempo di finire la frase e corre via, giù dalle scale dell'antico palazzo, e poi in macchina giù in Città Bassa, ché questa sua Seasons (fino al 26 ottobre) è una mostra diffusa in diversi spazi di Bergamo e parte di un intelligente progetto curatoriale della Gamec ideato da Lorenzo Giusti per il quarto ciclo de Il Biennale delle Orobie. Pensare come una montagna.
Reduce dal Centre Pompidou-Metz dove ha co-curato con Chiara Parisi una mostra-monstre (350 pezzi, di cui 37 suoi) che è un viaggio caleidoscopico sulla sua produzione in dialogo con quella dei principali artisti contemporanei, Cattelan a Bergamo svela il suo volto non meno giocoso e irriverente, ma di certo più intimo. «Pensavo che Bergamo fosse la Dalmine e invece è una Firenze in miniatura», mi dice mentre stiamo per entrare nell'Ex Oratorio di San Lupo. Si diverte a suonare i citofoni per strada, prende in giro bonariamente l'«ascensore» (assessore) alla Cultura Sergio Gandi e la sindaca Elena Carnevali, confonde più volte la Dalmine con l'Ansaldo («troppo tempo a Milano») e poi si fa serio. «La provincia dice - è un luogo piacevole dove lavorare, si riescono a fare ancora cose come queste». Se il suo ultimo intervento pubblico risale a 15 anni fa (è L.O.V.E, il celeberrimo dito medio davanti alla Borsa di Milano: «Ci siamo divertiti»), qui il passo è diverso: niente shock immediato, tutto è più meditato e composto. Si sente il peso della storia e di un progetto incubato in circa due anni di frequentazione intensa con la città orobica.
Dentro l'oratorio troviamo un'aquila in marmo sbattuta a terra. «Siamo arrivati a quest'aquila e a metterla qui dentro dopo un po' di tempo. Prima pensavo di lavorare su quella originaria», butta lì Cattelan e allora vale la pena raccontare la storia dell'altra aquila, in bronzo, commissionata nel '39 dalla Dalmine, all'epoca acciaieria di Stato, per la decorazione del ceppo commemorativo del discorso tenuto da Mussolini nel '19 agli operai dell'azienda in sciopero creativo (da lì sarebbero nati i Fasci di combattimento). Ora quell'aquila, dopo essere stata esposta nella colonia estiva dell'azienda, sotto la Presolana, se ne sta imballata in uno dei magazzini della Dalmine: Cattelan l'ha, per così dire, abbattuta (o liberata dal peso del passato e dell'ideologia). Mentre siamo al primo piano della Gamec (nella parte del museo ancora aperta, in attesa della nuova grande sede che aprirà nel 2026) gli chiediamo se questa è una mostra politica, ma non risponde. Ciò che vediamo pare una riflessione su ciò che passa e ciò che resta e sul tempo che scorre: No è una scultura che rielabora l'iconico Him, l'Hitler inginocchiato del 2001, solo che questo ha un cappuccio di carta in testa: «Giuro che è davvero lui, ma per saperlo davvero bisognerebbe guardare sotto» dice beffardo, ma poi nessuno ha il coraggio di controllare perché quest'opera che occulta e al tempo stesso supplica davvero inquieta.
Di fronte, un mattone con impressa la scritta «Empire» è chiuso dentro una bottiglia di vetro: «Questa è stata l'opera più difficile da concepire: non c'è molto da dire, altrimenti ci scoppia la testa». E quindi ce ne infischiamo di eventuali metafore (il mattone come base per la costruzione o il mattone che spacca la vetrina?) e corriamo alla sua quinta scultura, ultima tappa di questo progetto espositivo itinerante. Siamo nella trafficatissima Rotonda dei Mille dove sulle spalle della statua dedicata a Giuseppe Garibaldi è installata (diventerà permanente come il dito medio a Piazza Affari?) la statua di un bambino con la maglietta rossa e i pantaloncini chiari che con le dita della mano destra mima una pistola.
L'opera s'intitola One, Uno: è l'immagine di un piccolo vandalo che sbeffeggia la Storia o quella di un nipotino in spalla al nonno del cuore? «Non vedi che sta giocando?», mi dice Maurizio Cattelan prima di un selfie a fine mostra.