Tutti alle urne e senza nemmeno turarsi il naso

Caro Granzotto, ora attraverso Bertolaso prosegue furente l’attacco mediatico a Berlusconi. Adesso è saltato fuori anche un giro di gay, a conferma che al peggio non c’è mai fine. Approfittando del momentaccio, Gianfranco Fini molla più d’un calcio dell’asino e altri piccoli Fini calcetti degli asinini. Le famose riforme, neanche a parlarne e tutto l’impianto del centrodestra sembra andare a ramengo. Io sono un liberale, caro Granzotto. Lo ero da quando il Pli era un «partito laico» stritolato fra il maglio democristiano e il martello comunista. Il Pli di Benedetto Croce, di Luigi Einaudi e di Giovanni Malagodi. Votavo per la bandiera, ben sapendo che col nostro quattro o sei per cento non saremmo andati lontano, ma era forse meglio così perché i magri risultati elettorali ci tennero a distanza dal potere, che sarà anche vero che logora chi non ce l’ha, ma in un modo o in un altro sempre corrompe. Estintosi il Pli, ebbi la fortuna di vederlo rinascere, se non nei modi almeno nei principi e negli ideali, in Forza Italia, ma nel vedere dov’è approdato, creda, mi cascano le braccia. E con rammarico penso alle occasioni perdute per non aver dato ascolto a una massima che pure non ha mai avuto smentite e che Indro Montanelli ripetè non si sa quante volte negli editoriali dei primi anni del Giornale: meglio soli che male accompagnati. Da liberale a liberale quale lei è di sicuro mi dica, caro Granzotto: perché e per che cosa dovrei andare a votare domenica 28?
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Ha forse ammainato la bandiera, caro Barbieri? Si arrende, alza quella bianca? Se aveva un senso combattere, con la democratica arma del voto (arma che non spara mai a salve, questo è il suo bello) per una certa idea - quella liberale - dello Stato e della società negli anni ’60 o ’70, figuriamoci adesso. Allora era battaglia politica e culturale, oggi è scontro di civiltà: l’una che si ispira appunto ai princìpi liberali e l’altra, germogliata come un fiore marcio dai cascami dell’ideologia comunista e cattocomunista. Se gliela dovessimo dar vinta per abbandono di campo non creda che quella sia gente che fa prigionieri, caro Barbieri. Il demone giacobino che li divora li porterebbe a bandire una rivoluzione culturale modello Mao Tze Tung con tanto di virtuali, ma non per questo meno efficienti campi di rieducazione. Fra un assordante tintinnio di manette - musica divina, all’orecchio dei «sinceri democratici» - ci ritroveremo nelle mani di scatenati piemme, di ringhiosi grillini, di squittenti girotondini. Ci troveremmo alle prese col «popolo viola» nelle vesti di guardiani della rivoluzione, con gli scritti di Flores d’Arcais in versione Libretto rosso. E con i Santoro, i Fazio e i Morgan, le Littizzetto, le Rosy Bindi, le Margherite Hack e tutti i nani e le ballerine progressiste in cattedra, a indicarci il sol dell’avvenir e guai se non guardassimo nel punto giusto. È ciò che vuole, caro Barbieri?
Questa sinistra qui, spocchiosa, sguaiata e grossolana, questa sinistra che nella sua incommensurabile fessaggine si picca di voler regolare l’ora e i minuti dell’orologio della storia, tanto ha fatto e tanto ha detto da farci scordare che il voto è anche un diritto. Resta solo un dovere. Un obbligo a cui si è tassativamente tenuti per soddisfare a una norma morale: difendere la civiltà liberale dall’aggressione dell’orda illiberale. Questo è, caro Barbieri: si va a votare, si deve andare a votare per la nostra bandiera. E dunque senza neanche il bisogno di eventualmente turarsi il naso perché la nostra è una bandiera che sa di pulito.

Una volta rimessa a cuccia l’orda, sarà poi compito del Cavaliere procedere alle pulizie di Pasqua all’interno del Pdl (e per il futuro, affidare la presentazione delle liste a un corriere, FedEx, Dhl, quale che sia. Garantiscono il recapito. Puntuale)

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