Tutti i tic di Carlo: il coatto, il boy scout e il gran pignolo

Esce in 800 copie "Grande, grosso e... Verdone", la pellicola nella quale tornano le maschere del comico. In uno degli episodi fa furore in coppia con la Gerini

Tutti i tic di Carlo: il coatto, il boy scout e il gran pignolo
Roma - Come la collera dei calmi, la malinconia dei comici esiste e adesso lotta insieme a noi in Grande, grosso e... Verdone, l’ultimo film del comico romano (da venerdì nelle sale con oltre 800 copie), che torna al suo antico repertorio per volere dei fans. Millequattrocentosettatuno e-mail, scaricate in tre mesi dal suo personale sito, hanno infatti convinto Carlo Verdone a ripescare, dal proprio trovarobato artistico, gags, personaggi e situazioni così care ai verdoniani convinti da evocare una clonazione, vent’anni dopo, di quelle maschere entrate con allegria nella nostra scena mentale.

Se il famolo strano della coppia burina, formata insieme a Claudia Gerini in Viaggi di nozze (1995), torna spesso nel parlato gergale, quando ci si voglia riferire a un qualche incontro sessuale da gestire con un pizzico di fantasia, significa che Verdone, ipocondriaco confesso, fa testo. Qua è del costume nazionale che si tratta, perché «il mondo non parla più come noi», per dirla con Leo, alias Carletto, nel primo dei tre episodi costituenti un unico album di figurine italiane, da sfogliarsi come un impolverato regesto di usi scomparsi, quindi patetici, buoni, semmai, per riderci su amaramente. Il nostro, insomma, sta dalla parte dei cafoni e dei candidi, quegli umiliati&offesi così ben rappresentati dai membri della famiglia Nuvolone, dedita alla scoutismo e in grado, ancor oggi, di recitare un requiescat in pacem quando la nonna muore in casa.

So’ ’er fijo daa salma!. Nel primo episodio non stupisce (perché non lo porta più nessuno e le giovani generazioni non lo conoscono) quel bottone di stoffa nera, che papà Nuvolone esibisce cucito sulla camicia, come usava fino agli anni Cinquanta, quando, per amor di civiltà, occorreva dare agli altri tangibile segnale della perdita d’un parente. Quasi a dire: attenzione, fragilità. E se la badante entra in casa fumando e parla russo al cellulare, la moglie di Leo (Geppi Cucciari, qui al suo esordio cinematografico) si esprime in dialetto sardo, risultando ugualmente incomprensibile. E qua Verdone, con grazia senile, ci certifica che non abbiamo più una lingua comune. «I miei personaggi andavano adattati alla realtà di oggi e ho rapportato il loro Dna e maschere mature. Ormai, tutto ci scivola addosso e ho voluto contrapporre il candore di questa famiglia alla Ionesco, alla volgarità dei tempi che corrono», spiega il regista, sotto contratto con Aurelio De Laurentiis per un cinepacchetto chiavi in mano. Quanto al funerale, momento tipico d’un assetto sociale, ecco un nuovo quadretto pende in tinello, con la didascalia «altri tempi». Leo vuole risparmiare sulla bara, ma non sulla propria dignità, ma gli capita un cassamortaro cocainomane, che porta la salma al Verano, anziché al Vetrano, facendosi investire in auto, con conseguente schianto della cassa sull’asfalto (ai Carabinieri che lo fermano, Leo dirà: «So’ er fijo daa salma») e uno sfregio via l’altro non c’è pace per la bara.

Attenzione a quel dente scheggiato!. Nel secondo episodio torna il temuto professor Cagnato, quel precisetto insopportabile, che con implacabile puntigliosità dava la morte alla seconda moglie (Veronica Pivetti), ancora in Viaggi di nozze. Al vocabolo obsoleto «onorabilità» tocca fermarsi, perché il dispotico docente, in realtà cinico e baro, tiene molto al suo buon nome e va, sì, a prostitute (fantastico quando snocciola la mappa delle battone di Roma con maniacale accuratezza), però se ne vergogna un poco e indossa una mascherina nera, mentre una mercenaria si china sul suo sesso. «Attenzione a quel dente scheggiato!», esorta lui, che poi saluterà un onorevole (sempre Verdone), a sua volta andato a puttane. «La mia è una commedia cattiva, non c’è buonismo: sono tempi cinici, critico l’etica dei politici. Da loro vorrei disciplina e rigore, così faccio il bacchettone», spiega Carlo, che porta spesse lenti da miope, mentre l’età avanza. E siccome, alla voce «padre», non si trovano più genitori come il Cagnato, disposti a educare, magari con pedanteria, tra visite alle catacombe («Una volta al mese, ci vado con mio figlio e provo un senso di pace», racconta l’artista) e saggi di pianoforte, lezioncine di sesso («Devi dare un bacio bagnato. Con la lingua!» e, ancora: «Mi chiamavano er Manganello della Nomentana», rivolto al figlio) e reprimende, arriva l’ennesimo memento. Non a caso Verdone, non più scoppiettante come negli anni Settanta-Ottanta, preferisce il secondo episodio tragico, «con un senso di morte, ma è un problema mio», riconosce.

Amò, ’o famo strano?. Rieccoli i burinacci, ora genitori di un adolescente problematico e con un look stragriffato, che neanche gli stracafonal usano più. Moreno porta pantaloni rossi e sneakers dorate; Enza, hot-pants attillati, che evidenziano la stagionatura delle natiche.

Sfogliando il dizionario, stop davanti al solito chewing-gum, masticato con trivialità da lei, e alt al ping-pong «famolo strano». «Te spalmo de miele d’acacia e te lecco tutta?», propone lui. «Co la glicemia che c’hai?», è la replica di lei, quasi materna.

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