Metti una morte a cena. O a pranzo, o a colazione. Quando lo stomaco fa sentire la propria sommessa protesta (a pensarci bene la più vitale e ottimista delle rivendicazioni possibili), forse, sotto quel languorino, in fondo di natura puramente meccanica, si nasconde un altro tipo di mancanza: il vuoto esistenziale originato dalla mancanza di una persona cara. E allora che si fa? Ci si ritrova, a cena, pranzo o colazione, per mangiare e bere qualcosa e, contemporaneamente, per esorcizzare il dolore seguito a una scomparsa o, più genericamente, la paura della Fine.
Non è una novità, l’idea lanciata dal sociologo e antropologo svizzero Bernard Crettaz nel suo libro Cafés mortels. In primo luogo non lo è in quanto Crettaz fondò la «Società di studi tanatologici» della Svizzera francese un bel po’ di tempo fa, all’inizio degli anni Ottanta, insieme alla sua compagna Yvonne Preiswerk. Ma soprattutto perché il legame fra la convivialità amichevole e familistica e la riflessione sul comune destino dei sodali riuniti attorno a un tavolo attraversa tutta la storia dell’umanità. Partendo, a esempio, dal dialogo platonico più «funereo», il Fedone, per arrivare all’ampio ventaglio di tradizioni presenti ancor oggi a ogni latitudine che fanno seguire all’addio al caro estinto una (solenne o leggera) delibazione. E magari passando attraverso i Tropici, più o meno tristi che siano, delle popolazioni primitive o i raffinati culti egizi, in cui la precisione ridondante e quasi barocca delle disposizioni post mortem si associa a una metafisica di grana estremamente fine.
Ma la presunta «crema» della società attuale, vale a dire quell’Occidente che Zygmunt Bauman vede ridotto miseramente allo stato «liquido» mentre i fautori dell’happy hour preferiscono solido come i bigliettoni che intascano puntualmente ogni giorno all’ora dell’aperitivo, è davvero in grado di reggere, oltre all’alcol ingurgitato, il confronto con la Signora armata della canonica falce? È il quesito che sta alla base della nuova moda francese, cui il quotidiano Libération ha dedicato ieri una pagina. Basta con il buonismo e i con i discorsi «del più e del meno» che lasciano il tempo che trovano, suggerisce Crettaz: impariamo a dedicarci a qualche cosa di più «alto» senza timore di apparire politicamente scorretti o, peggio, socialmente plumbei e respingenti. «La morte - spiega lo studioso - se l’è sempre accaparrata il potere. E se un tempo si trattava del potere della Chiesa, oggi tocca al potere della medicina, la quale diffonde il mito illusorio della morte controllata, buona, lenta e dolce. Tutto questo è pericoloso, perché fa pensare alla morte come a una malattia. Ma non lo è, al contrario: è la nostra condizione umana».
Il richiamo alla Chiesa e all’auctoritas che l’ha ormai rimpiazzata contiene già il passo successivo, cioè il rilancio di un certo neopaganesimo da brasserie, spesso e volentieri condito dall’auto-analisi psicologica sulle modalità di elaborazione del lutto. La gente arriva nel locale, ordina un drink, si accomoda e invece di spettegolare sui flirt di Carlà o di dire la propria sull’ultimo romanzo di Houellebecq, spiattella il ricordo di quando dovette annunciare alla propria moglie la morte di sua madre, o di quando, parlando con un amico, si riesce a uscire dal tunnel della depressione seguita a un funerale...
Insomma, i caffè filosofici che anche da noi si stanno lentamente popolando di studenti fuori corso con barbetta e professori à la page, annoiate signore dell’alta borghesia desiderose di provare brividi culturali e pensionati stanchi delle sfide a bocce o a briscola chiamata, dovranno correre ai ripari e adeguarsi organizzando serate o pomeriggi a tema sul Libro tibetano dei morti o sugli anfratti più bui della dottrina di Hans Georg Gadamer. Se non lo faranno, sarà la loro... morte civile, e dovranno riposizionarsi sul mercato ripiegando sulle abbuffate da Champions League.
A proposito di abbuffate (e di Francia), la bulimia tanatologica proposta da Bernard Crettaz ci richiama alla memoria un film che la critica, notoriamente debole di stomaco, faticò a digerire, per non dire che le vomitò addosso i peggiori giudizi: La grande bouffe, di Marco Ferreri (1973), dove morte e cibo sono gli estremi stretti nell’abbraccio fatale. Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Philippe Noiret e Ugo Tognazzi decidono di suicidarsi nella maniera più assurda e contraddittoria, ingozzandosi fino a scoppiare.
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