Da un cavo al futuro: la rivoluzione del piccolo schermo

Telemilanocavo nel ’74, oggi è un colosso che ogni giorno accompagna la vita degli italiani In mezzo secolo il «Codice Mediaset» ha rinnovato il linguaggio. Creando polemiche. E anticipando le tendenze, le svolte di costume e il termine chiave di questa epoca: condivisione

Da un cavo al futuro: la rivoluzione del piccolo schermo
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All’inizio diceva: «Non è per niente facile fare una tv commerciale in Italia, manca il know how». Così lo ha creato lui. Per forza nella televisione italiana c’è un AS e un PS, una fase ante Silvio e una post Silvio, la prima ha creato le condizioni perché nascesse Fininvest e la seconda ha condizionato tutto il resto, mica soltanto la tv.

Nessuno lo avrebbe previsto il 24 settembre del ’74 quando iniziarono le trasmissioni di Telemilanocavo, nata a Milano 2 dopo la sentenza di luglio della Corte Costituzionale su Telebiella che liberalizzava questo tipo di trasmissioni. Cinquemila utenze, ventimila telespettatori. Dopo il via libera del 1976 anche alle trasmissioni via etere, Telemilanocavo diventa Telemilano58, visto che il 58 era il canale di trasmissione. Sede: uno scantinato di Palazzo dei Cigni a Segrate. Il PS, il post Silvio inizia qui, inizia con gli investimenti tecnici fatti con la consulenza di Adriano Galliani e con la visione di fare una tv commerciale che, come ha raccontato Camilla Cederna, «sarà una tv ottimista». In una Italia dominata dalla Rai e frammentata in decine di tv private, Telemilano fa una imponente campagna acquisti e nella stagione 79/80 mette in palinsesto programmi di Mike Bongiorno, Claudio Lippi, Claudio Cecchetto e I Gatti di Vicolo Miracoli. Sono i punti cardinali che ancora oggi, riveduti e corretti, regolano la bussola di Mediaset: i quiz, la comicità, il varietà, il programma per famiglie. Obiettivo: creare un network nazionale, roba che allora era una visione assoluta, quasi utopica nell’etere marchiato Rai. La normativa non consente trasmissioni in contemporanea nazionale e così nasce il cosiddetto «pizzone». In poco tempo, Silvio Berlusconi acquista o si accorda con una cinquantina di emittenti locali capaci di irradiare una grande percentuale di suolo italiano. I sogni nel cassetto di Mike Bongiorno (oggi si chiamerebbe «game show») viene registrato e poi le «cassette vhs» arrivano a tutte le emittenti per trasmetterle nello stesso giorno alla stessa ora. Una sorta di diretta nazionale. È la prima volta che Silvio Berlusconi diventa davvero divisivo. La sinistra sbaglia (ancora) valutazione e inizia ad attaccare questa «tv popolana» che in realtà si rivolge anche ai suoi elettori. È un boom e Telemilano diventa un nome troppo limitativo. Nasce Canale 5 che è un network extraregionale al Nord mentre al Centro Sud si chiama Canale 10, ha meno programmi ma lo stesso logo. L’11 novembre 1980 anche lì diventa Canale 5 e nasce il primo network nazionale non Rai con Rondò veneziano di Gian Piero Reverberi come sigla di apertura e chiusura dei programmi. L’evento che lo lancia davvero all’attenzione di tutti è il Mundialito, un torneo di calcio che raggiunge anche 8 milioni di telespettatori a partita. Da qui è storia, che poi passa attraverso l’allargamento del gruppo (Italia Uno acquistata nel 1982 da Edilio Rusconi e Rete4 da Mondadori nel 1984, con il passaggio del Maurizio Costanzo Show su Canale 5), il cosiddetto «Decreto Berlusconi» del governo Craxi, l’arrivo delle dirette nel 1990 con la legge Mammì, la nascita del marchio Mediaset nel 1996.
Fin qui le prime tappe decisive.

Poi ci sono la conferma di un linguaggio e di uno stile, il ruolo di pioniere della tv commerciale che prima in Italia non c’era e che, per i soliti noti, è stata addirittura una causa di decadenza intellettuale. La tv di Silvio Berlusconi ha consolidato prima di tutti il ruolo di quelle che oggi si chiamano «serie»: il successo di Dallas (trascurato dalla Rai) fu così gigantesco che a Viale Mazzini iniziarono a chiamare «Geiar» questo imprenditore milanese sbarcato come un marziano nel mondo già paludato della tv. Cambia anche il modo di raccontare. Anticipando di decenni il linguaggio web e anche il cosiddetto «gonzo journalism», i conduttori Fininvest parlano in prima persona invece che in terza come in Rai. E che conduttori.

Oltre a Mike, ci sono Loretta Goggi, Sandra Mondaini, Raimondo Vianello, Corrado, Maurizio Costanzo. Aprono la strada a una nuova generazione di protagonisti della televisione che tuttora sono compagni di viaggio degli italiani, da Gerry Scotti a Maria De Filippi. Con il Grande Fratello del 2000, la tv anticipa in qualche modo l’era social, della condivisione, della presenza costante e spesso imbarazzante, dell’«essere famosi per essere famosi». Una storia nata via cavo nel 1974 in un piccolo quartiere di Milano che oggi è diventata un gruppo per decine di migliaia di dipendenti in Italia e all’estero (Telecinco è tra le tre tv più seguite in Spagna) ed è cruciale nella vita pubblica e domestica di tutti noi.

Ieri sulla Torre Mediaset di Milano è apparsa la scritta «Grazie Silvio, ciao papà», quasi a suggello di una storia che si è rivelata decisiva nella Storia di questo paese. Al netto di tutte le polemiche intellettuali e politiche, tanto male non è poi stata, pensandoci bene.

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