I supereroi nel multiverso delle banalità. Così Topolino ha ucciso gli Avengers

La Disney ha comprato la Marvel e ha passato il suo straccio colorato e infantilizzante su tutto con sorrisi da fast food e regole da franchising

I supereroi nel multiverso delle banalità. Così Topolino ha ucciso gli Avengers

In settimana mi sono immerso in una maratona di supereroi su Disney Plus e mah, mi è venuto da pensare. Una volta i supereroi stavano male, veramente male, con problemi, contraddizioni, doppi fondi. Guardate Batman, che pure non c’entra niente con la Marvel (è DC, da bambino all’inizio credevo che fossero fumetti della Democrazia Cristiana, sebbene non capissi cosa c’entrava Andreotti con Bruce Wayne) ma ormai i fan confondono tutto, tanto sempre in calzamaglia stanno.
Il mio preferito? Il Batman di Tim Burton: gotico, stralunato, pieno di traumi irrisolti e pipistrelli veri, non emoji. O quello di Nolan, il Cavaliere Oscuro che affronta la psicosi urbana con la stessa grazia con cui si affronterebbe un attacco di panico in tangenziale. Eroi contraddittori. Ok prima ancora, negli anni Sessanta, c’era la versione televisiva con Adam West: colori sgargianti, onomatopee in sovraimpressione, crash, bang, splash, combattimenti coreografati come balletti. Un Batman che sembrava uscito da una fiera del fumetto di quegli anni: dichiaratamente sopra le righe, quasi comico, comunque coerente col suo tempo e col suo linguaggio. Non pretendeva serietà: era un gioco e si presentava come tale.

E poi purtroppo è arrivata la Disney, con i suoi sorrisi da fast food e le sue regole da franchising: ha comprato la Marvel e ha passato il suo straccio colorato e infantilizzante su tutto (sottovalutando anche l’intelligenza dei bambini). Da allora, ogni supereroe dev’essere divertente, adorabile, memabile. I traumi? Trattati con una battuta. I lutti? Difficili vederli nel circo degli effetti speciali. Il dolore? Rimpiazzato da una scena post-credit. Guardate cosa hanno fatto a Daredevil! Nella serie Netflix, Matt Murdock era un avvocato cieco che prendeva calci e li restituiva peggio e combatteva nel fango, col sangue in faccia, a luci basse, tutto molto ombroso, dentro e fuori dal personaggio: sembrava uscito da un noir urbano, da un confessionale senza nessuno dall’altra parte del vetro. Versione Disney: luci al neon, moralismo da catalogo e pugni che sembrano stretta di mano, come se avessero messo un biglietto del parco giochi sulla croce, al cinema ormai mi aspetto pure che esca fuori un giocoliere nell’intervallo.

Il problema non è che i film Marvel siano brutti, è che sono tutti uguali, costruiti con la stessa tabella Excel, lo stesso schema: altissimo budget, CGI come se piovesse, ironia, botte, ironia, scena d’azione, cameo, ironia finale. Come un gelato che sa sempre di vaniglia, anche quando promette “gusto cosmico alla fragranza di universo”. Anzi, come un gelato che deve sapere di ogni gusto. Il pubblico si diverte? Io mi diverto? Forse, come in un centro commerciale la domenica pomeriggio: perché non c’è niente di meglio da fare e almeno c’è l’aria condizionata e io amo i centri commerciali, però non sono film.

Con Disney insomma il target dei supereroi si è abbassato, sempre più rivolto ai bambini e pure loro, per restare agganciati, devono essere sempre più piccoli, perché se crescono si annoiano, e se si annoiano cambiano piattaforma.
Ho visto anche Deadpool & Wolverine, o come andrebbe chiamato: “due ore di rumore con interruzioni comiche”. Un film che si regge su due cose: la nostalgia e la battutina da trailer. La trama? Un pretesto. Anzi, meno: un vago sentore di trama, quella poca che c’è non ha senso, e non prova neanche a farne. Dall’ironia costante all’autoironia che dovrebbe salvarci tutti ma a lungo andare è come se uno ti facesse il solletico mentre affoghi.

Il famoso sfondamento della quarta parete, l’avete notato? Nei primi Deadpool era una trovata geniale e dosata con intelligenza, qui è diventato un interfono rotto: ogni tre minuti deve ricordarti che stai guardando un film. Ammiccamenti, strizzatine d’occhio, commenti meta da decifrare: una valanga di consapevolezza forzata che, alla lunga, ottunde invece di divertire, come se un comico ti desse di gomito durante tutto lo spettacolo per assicurarsi che tu stia ridendo.
E se non capisci cosa sta succedendo, tranquillo: non sei solo, è tutto pensato per non essere capito, è probabile non ci capiscano niente neppure loro, meno male che Stan Lee è morto in tempo. Affollamento di personaggi, citazioni incrociate, camei di gente che nemmeno i fan più malati riconoscono al primo colpo.

Voglio dire, ormai nei film Marvel entra chiunque: morti, vivi, versioni alternative, cloni, cosplay, varianti da mondi paralleli. È il metaverso, bellezza. La scusa perfetta per riciclare tutto, riscrivere tutto, allungare il brodo all’infinito per mandare in brodo di giuggiole chi esce dal cinema convinto di aver visto qualcosa di colossale senza sapere cosa. Te ne accorgi se provi a raccontare cosa hai visto. Anche perché la meccanica quantistica è diventata la nuova supercazzola prematurata con scappellamento a destra nel primo universo parallelo: “Ma come ha fatto a tornare in vita?” “Effetto tunnel quantico.” “Perché ci sono due versioni dello stesso personaggio?” “Entanglement dimensionale.” Un tecnoblabla che giustifica qualsiasi cosa.
Oh, e Spider-Man? Il primo (il primo della nuova era, lasciamo perdere quella degli anni Settanta), quello di Sam Raimi con Tobey Maguire, era un ragazzo goffo, pieno di dubbi, che si arrampicava sui muri ma non riusciva a gestire una cena con Mary Jane. Emozioni vere, conflitti reali, trama semplice ma efficace, e un senso di responsabilità che pesava più dei superpoteri. Dopo è arrivato il reboot con Andrew Garfield: più cool, più agile, ma con meno sostanza. E infine Tom Holland, il Peter Parker del MCU, che sembra uscito da una sitcom per adolescenti, sempre pronto alla battuta, anche quando il mondo sta per finire. Fin qui comunque meglio un reboot del pasticciaccio brutto de via Marvelliana disneyzzata.
Tipo Spider-Man: Across the Spider-Verse. Visivamente spettacolare ma anche un tripudio di versioni alternative dell’Uomo Ragno, tanto da far girare la testa. Un’esplosione di colori e stili che alla fine lascia poco spazio alla narrazione e boh, anche qui: cosa hai visto? Me lo racconti? Boh.

I tormenti interiori di Peter Parker, un tempo motore narrativo e concreto del personaggio, sono stati triturati nel frullatore del multiverso: il senso di colpa, il peso delle scelte, la solitudine quotidiana, tutto appiattito, distribuito su cinquanta varianti dello stesso costume. Ora Peter piange per tre secondi, poi parte una gag, un portale dimensionale, e via verso la prossima gif animata.

In definitiva, il nostro amichevole Spider-Man di quartiere è diventato un brand in un frullatore di computer grafica, imprigionato in una ragnatela di reboot, sequel e multiversi senza un verso. Anche qui: hanno ucciso l’Uomo Ragno, chi sia stato non si sa? La Disney.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica