«È una colossale e ignobile stupidaggine dire che Forza Italia è nata perché l’ha voluto la mafia...». Giuliano Urbani è appena uscito da una riunione. Il premier Silvio Berlusconi lo ha nominato coordinatore dell’anno della Cultura cinese e russa in Italia, che cadrà nel 2011, e delle manifestazioni italiane nei due Paesi. Quando sente le parole «mafia» e «Ciancimino» sorride, anzi ride...
Lei è la tessera numero due di Forza Italia. Proviamo, una volta per tutte, a raccontare la vera storia della nascita del movimento?
«Forza Italia è nata per colmare il gigantesco vuoto provocato dall’azzeramento della classe politica del Pentapartito. E per evitare un grottesco storico senza pari: mentre i regimi comunisti nel mondo venivano spazzati via, l’Italia democratica rischiava di trovarsi con i loro eredi. Un partito del 30% avrebbe potuto prendere il 65% dei seggi grazie a quella legge elettorale maggioritaria. E governare».
Si narrano leggende meravigliose sulla genesi delle liste...
«Lasciamo perdere le leggende. Io c’ero. Avevamo chiesto al fior fiore della classe dirigente della cosiddetta società civile di impegnarsi con noi. Ma quasi tutti hanno avuto paura».
Di che cosa?
«Paura dei comunisti, paura di perdere, paura di impegnarsi, di mettersi in politica. Gliela dico tutta? Con Berlusconi avevamo fatto due o tre liste ma abbiamo dovuto metterle in un cassetto. Chi ha raccolto la sfida, come me, ci ha rimesso anche il 60% del reddito. È stato un atto di coraggio finanziario, ma soprattutto civile, che altri... vabbé».
Ci faccia qualche nome. Sono passati 16 anni...
«Non posso. Il più brutale fu un grandissimo imprenditore di Torino».
È vero che il nocciolo duro di Forza Italia era composto da uomini Fininvest e Publitalia?
«Assolutamente no. È un’altra colossale stupidaggine. Il nucleo iniziale era composto da due persone: Berlusconi ed io. Il secondo gruppo si è allargato all’associazione del Buon governo con Antonio Martino. Nell’ambiente Fininvest, con un ruolo importantissimo, c’era Paolo Del Debbio. Il quarto gruppo si è esteso a molti amici di Berlusconi, tra cui Dell’Utri. Marcello era un organizzatore nato, conosceva moltissime persone tra i professionisti che lavoravano o avevano lavorato per Publitalia. Tutto qua».
Perché la mafia avrebbe puntato su di voi?
«Non è vero. Nessuno pensava che avremmo vinto, e con quelle proporzioni. È una stupidaggine ignobile. Se andiamo a guardare i dati statistici abbiamo avuto lo stesso successo in tutta Italia».
Anche in Sicilia?
«Anche in Sicilia. Il 61 a zero è arrivato dopo (nel 2001, ndr) ma per la totale eclisse della classe politica locale».
Poi nel ’95 il primo esecutivo Berlusconi cadde. Le brucia ancora aver dovuto lasciare dopo un pugno di mesi?
«Allora l’amarezza fu enorme. Eravamo talmente innovativi da essere destabilizzanti. Noi “moderatamente rivoluzionari” siamo stati fatti fuori dai “poteri forti”, come diceva il compianto Pinuccio Tatarella. L’establishment ci era contro perché lo costringevamo a cambiare».
Nei poteri forti ci mette anche la magistratura?
«Certamente. Quei pm che non fanno i riscontri, ad esempio con i pentiti, a me fanno molta paura. Pensi a Ciancimino: se uno racconta una manifesta calunnia, è evidente che lo fa per qualche scopo. O per fini politici o per avere i benefici dei collaboratori di giustizia. Poi è evidente che scatta la gogna mediatica. Ma queste sono mascalzonate, alle quali i magistrati non dovrebbero prestarsi, altrimenti si fa il loro gioco. Com’è che diceva Borrelli?».
Resistere, resistere, resistere...
Beh, io mi sentirei oggi di tradurlo in un altro modo: per favore, riscontrate. Riscontrate. Riscontrate».
Il problema è sempre quello: la riforma della magistratura...
«La cartina al tornasole di tutto è la separazione delle carriere. Il 75% degli italiani, ne sono certo, sarebbe favorevole. È il principio base della civiltà giuridica. Siamo all’Abc. Ma se si nega l’Abc che senso ha mettersi d’accordo sul processo breve?».
La sinistra è contraria...
«Ai tempi della Bicamerale D’Alema mi disse: “Ma mica pretenderai che?”. “E certo che io lo pretendo...”».
E infatti saltò tutto. L’ultima domanda: ma lei che Pdl vorrebbe?
«Più liberale è, meglio è».
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