È la faccia più feroce della crisi, e ieri negli Stati Uniti si è palesata sotto forma di 533mila posti di lavoro bruciati nel solo mese di novembre. Un dato choc, ben peggiore dei 320mila della stima iniziale, gelido e malaugurante con quel rimando al 1974, epoca di scandali presidenziali e troppa gente a spasso. Da ben 34 anni, infatti, il mercato del lavoro Usa non conosceva un simile downgrade. Così palese nella sua gravità e protratto nel tempo (oltre 1,2 milioni i posti saltati negli ultimi tre mesi) da far pronunciare a George W. Bush, per la prima volta, la parola blasfema: «Il Paese è in recessione», ha ammesso il presidente, mentre le Borse europee mandavano in fumo 180 miliardi di euro sotto l’effetto di crolli tra il 4 e il 5% (-4,74% Milano) e il petrolio scivolava sotto i 40 dollari il barile. Wall Street, dopo uno sbandamento iniziale, è invece riuscita a reagire: +3,43% il Dow Jones, +4,48% il Nasdaq.
Le misure di contrasto varate dal Congresso Usa per affrontare la crisi hanno forse messo in sicurezza il sistema finanziario («Il salvataggio delle banche è stato un successo», ha detto il Tesoro), ma non hanno evitato i licenziamenti di massa. Ben 370mila nel solo settore dei servizi, una delle colonne portanti dell’economia a stelle e strisce, destinati a impattare in modo drammatico sul già debole ciclo economico. E anche nell’ultima settimana la Corporate America ha continuato a imbracciare la scure: At&t ha comunicato 12mila tagli, il gigante multimediale Viacom ne ha annunciati 850 e il colosso chimico DuPont lascerà a casa 6.500 persone.
Alcune stime circolate ieri ipotizzano un crollo del Pil statunitense del 5% nel quarto trimestre, dopo il meno 0,5% del periodo luglio-settembre. I dati diffusi potrebbero tra l’altro non riflettere l’effettivo stato di salute dell’occupazione, dal momento che le statistiche del dipartimento al Lavoro non tengono conto di chi ha smesso di cercare un lavoro perchè ha visto per troppe volte andare a vuoto i propri tentativi.
Ciò che più preoccupa gli economisti è «l’allarmante accelerazione» con cui il mercato del lavoro si va deteriorando. Se oggi il tasso di disoccupazione è al 6,7%, il valore più elevato dall’ottobre del ’93, non si esclude un picco dell’8,5% entro la fine del prossimo anno. È del tutto evidente che un fallimento collettivo delle ex Big Three di Detroit (GM, Ford e Chrysler), che hanno chiesto aiuti per complessivi 34 miliardi di dollari, avrebbe un effetto disastroso sul mercato del lavoro e sull’intero Paese. «Sono preoccupato della sopravvivenza delle case automobilistiche», ha detto Bush, consapevole tuttavia che una delle major dell’auto dovrà fallire o garantirsi la sopravvivenza attraverso una fusione. In ogni caso, ha ribadito il presidente, i fondi del pacchetto da 700 miliardi non potranno essere utilizzati per salvare l’industria delle quattro ruote.
A gennaio, Barack Obama erediterà dunque una situazione economica drammatica e sarà chiamato a gestire una crisi che «probabilmente peggiorerà prima di migliorare», ha spiegato proprio il prossimo inquilino della Casa Bianca. I calcoli di Obama sui costi della recessione sono da brividi: due milioni di posti di lavoro bruciati.
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