Vanno a casa davvero. Veltroni scioglie l’Unione: il Pd corre da solo

Insulti e querele tra Di Pietro e i mastelliani: la maggioranza si squaglia Verso la sfiducia a Pecoraro (mercoledì). E Veltroni già pensa alle elezioni. Berlusconi prepara l’offensiva: "Devono andare subito a casa". Anche Di Pietro attacca: meglio le elezioni. L'ultimatum dell'Udeur: "Attenti mercoledì cade il governo". Dopo tanti ostacoli Prodi rischia di cadere sul Pecoraro

Vanno a casa davvero. Veltroni scioglie l’Unione: il Pd corre da solo

da Roma

«Lo voglio dire con assoluta chiarezza e formalità, in modo anche da chiudere una porta dietro di me: con qualsiasi sistema di voto il Pd correrà solo», scandisce Walter Veltroni. Il leader del Pd aveva preannunciato un intervento «forte» per questo fine settimana, e da Orvieto, ieri, ha mantenuto la promessa. È intervenuto al convegno di Libertà Eguale, ex corrente liberal dei Ds, e ha messo in tavola le sue carte, inviando messaggi precisi ad alleati e avversari.

La sferzata più brutale è riservata a chi nell’Unione, a cominciare dai piccoli partiti maanche da quei sostenitori del referendum che stanno nel Pd, gioca a tutto campo per bloccare il tentativo di varare in tempi stretti una nuova legge elettorale. Si scordino che il referendum possa essere la scappatoia di salvataggio, che costringerebbe il Pd a reimbarcarli in un listone di coalizione: «Il Pd si presenterà con le sue liste, e se Forza Italia avesse il coraggio di fare altrettanto sarebbe una enorme conquista per la democrazia italiana». Quanto al leader di Forza Italia, Veltroni non fa nulla per nascondere che, per lui, rimane il principale interlocutore. Anzi lo rivendica rivolto «ai tanti che mi dicono: “stai attento a Berlusconi”: io sto attento, ma non si può approvare una legge elettorale senza il concorso almeno delle principali forze politiche, tra le quali c’è Forza Italia».

Certo, dice il leader del Pd, «so che è più difficile parlare la lingua del dialogo che non dell’attacco», e se cercasse «applausi» basterebbe «fare quel che si è fatto per quindici anni», ossia continuare a demonizzare l’avversario. «Ma delle due l’una - conclude - o sbagliammo quando criticammo la Cdl che approvò da sola la legge elettorale, o la strada giusta è il dialogo ». Le parole di Veltroni hanno l’effetto di un elettrochoc sul centrosinistra. L’obiettivo del sindaco, come viene spiegato dai veltroniani al segretario del Prc Giordano, che lo aveva accusato di «destabilizzare » la situazione politica, è quello di tentare l’ultima accelerazione sulla bozza Bianco, che i suoi sherpa stanno lavorando a modificare di nuovo in senso più maggioritario possibile. Nella speranza che, col sì di Forza Italia, martedì venga adottato come testo base da mandare in aula. Sono i piccoli partiti (e indirettamente Prodi che ha fatto finora loro scudo) i destinatari dell’ultimatum. E il Prc corregge la linea, parlando di «sfida positiva».

Il partito di Bertinotti è molto preoccupato per le concessioni che ancora dovrà fare sulla legge elettorale (in particolare la rinuncia a quel riparto nazionale dei voti che rafforzerebbe Pd e Fi a scapito dei partiti medi), ma lo spettro del referendum lo spinge a tentare comunque la carta della bozza Bianco. I cespugli invece sono in rivolta: dai Verdi ai socialisti, da Di Pietro al Pdci si scagliano contro il sindaco di Roma e le sue «minacce ». Ma anche dentro il Pd, dove Rutelli si schiera con Veltroni («Con le alleanze coatte non si governa e non si fanno riforme, il Pd deve avere una vocazione maggioritaria»), insorge l’ala prodiana, dalla Bindi a Parisi, da Monaco a Santagata. Rosy Bindi evoca un sospetto pesante: «C’è chi lavora per andare a elezioni anticipate. Per questo penso che ci vorrebbe una norma statutaria che dica che chi perde va a casa e non può continuare a guidare il partito».

La partita della legge elettorale si sta però intrecciando pericolosamente con scadenze di massimo rischio per il governo, a cominciare dal voto di mercoledì in Senato su Pecoraro. Talmente a rischio che è stato anche fatto un tentativo in extremis di far dimettere il ministro dell’Ambiente prima, per evitare una conta che allo stato, ammettono da Palazzo Chigi, «non torna».

E che difficilmente potrebbe essere derubricata a voto su un singolo ministro, come suggerisce Parisi: «Ci è chiaro che verrebbe messo in discussione il governo», dicono nell’entourage del premier. Anche perché i Verdi non sentono ragioni: «Sarebbe una esplicita sfiducia al governo: per molto meno, un voto sulla politica estera, Prodi è dovuto andare a dimettersi al Quirinale », ricorda il capogruppo Bonelli.

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