Milano - C’è modo e modo di uscire da un annus horribilis di sofferenze personali e familiari. Roberto Vecchioni ne è uscito con lo slancio e la carica di un ragazzino, rivendicando «la ricerca di un nuovo umanesimo» nell’album Di rabbia e di stelle, e trovando una nuova via attraverso la riscoperta di Dio e della spiritualità. «Non esiste la casualità. La vita mi ha convinto che nulla avviene per caso, Dio è il grande regista dell’universo e delle nostre vite», dice il cantautore, che in questi giorni si mette in gioco in una nuova veste lirico sinfonica con lo spettacolo In-cantus. Suoni dell’anima tra poesia e musica. Partirà venerdì 19, dalla Cattedrale dei Marsi di Avezzano, in provincia de L’Aquila, cantando brani di Ciaikovskij, Händel, Rachmaninov, lo Stabat mater di Jacopone da Todi, suoi brani a sfondo religioso e molte poesie accompagnato dagli archi del Nu-Ork String Quartet.
«A 60 anni ho riscoperto la spiritualità. Ho superato la rabbia e lo sconforto sapendo che ci si può salvare con la forza dell’amore. Mi sento come un bambino perché fra l’altro ho scoperto quella che io chiamo la saggezza del canto».
La sua in pratica è una riscoperta della fede.
«Sì, sono un credente e un cristiano che però usa anche l’intelletto. Quindi la mia fede è lacerata e al tempo stesso rafforzata dai dubbi. Mi piace questa non certezza, ma la scoperta di mille possibili speranze e verità».
Di solito l’incertezza fa paura.
«No, anzi. La certezza è la fine della speranza, è la domenica sera. Io ho il gusto della ricerca, del viaggio che non finisce mai alla ricerca di Dio e delle sue manifestazioni che ognuno è libero di interpretare a modo suo. Amo indagare nei meandri dello spirito per illudermi di scoprire l’ignoto».
Eppure nell’album di Rabbia e di stelle c’è molta rabbia?
«È la rabbia della vitalità. Non è la rabbia degli operai degli anni Sessanta, è la rabbia dello sconforto che si supera con la convinzione che bisogna guardare in altre direzioni per salvarsi».
Negli anni ’70 per voi cantautori era quasi blasfemo parlare di Dio.
«Sì, era un periodo di presunto illuminismo; si veniva da una grande repressione dei sentimenti, si scopriva la libertà di fare tante cose fino ad allora proibite. Del resto qualche degenerazione è normale nei movimenti epocali, e il ’68 lo è stato, anche se l’Italia è arrivata dopo l’America e la Francia. Il Futurismo è stato l’unico movimento autenticamente italiano».
Quindi s’è dedicato a uno spettacolo «alto» e impegnativo.
«Parlo di Dio e del Natale riflettendo e anche un po’ giocando. L’ho anche un po’ alleggerito, aggiungendo brani popolari come Vissi d’arte di Puccini, e alcuni brani che trattano del mio rapporto con Dio come Le rose blu, Blumun, Sogna ragazzo sogna. È una grande sfida per me: ho scritto un testo sul Concerto n. 2 in do minore di Rachmaninov, eseguo arie di Händel, lo Stabat mater di Jacopone, Vissi d’arte di Puccini, Jingle Bells e Tannenbaum in versione jazz. Il tutto inframmezzato da testi di Papa Giovanni e Madre Teresa, Gandhi e poesie come Ode alla pace di Neruda, Borges, Gassman. Insomma un incontro tra parole e musica che testimoni l’amore e la pace. Io farò da tramite portando le mie canzoni, le arie sacre, le poesie al pubblico».
Un lavoro complesso.
«Faticoso fisicamente perché saranno cinque serate consecutive. Poi con la musica sinfonica non posso sbagliare o prendere le licenze che uso nel pop».
La sua voce sarà messa a dura prova.
«Cercherò di fumare meno sigarette; del resto penso che nessuno si aspetti che io canti come Pavarotti; l’importante è commuovere che non significa piangere ma godere delle stesse emozioni».
Sarà che lei è professore, ma il suo percorso è sempre più colto.
«A questo ho sempre tenuto moltissimo. Non ho mai scritto canzonette tanto per farle, il mio è un modo di studiare l’animo umano e non me ne frega niente di quanto un mio disco possa vendere o no. Però ho sempre cercato di separare il mondo della canzone da quello dell’insegnamento. Non vorrei mai che un mio brano suonasse troppo accademico. Prendo spunto dai sentimenti e dalla vita di tutti i giorni».
La differenza tra i cantautori della sua generazione e quelli di oggi?
«Le nostre canzoni dovevano avere tante parole, ogni brano era un romanzo, si cercava il messaggio a tutti i costi. Oggi i cantautori sintetizzano i sentimenti cantando tutto, dal cinismo all’indifferenza».
Meglio quelli di ieri?
«Ciò che manca oggi è la letterarietà. I testi di De André, Guccini, De Gregori sono veri e propri pezzi di letteratura».
Oggi molti cantautori si fanno sedurre dai duetti.
«C’è duetto e duetto. Anch’io lo farei un duetto con Guccini. Oppure ci sono quelli di Ornella Vanoni, bellissimi e intensi cui è permesso tutto, primo perché è una grandissima cantante e interprete in grado di dominare qualsiasi brano, poi perché non è una cantautrice».
Quando rivedremo il Vecchioni cantautore?
«A gennaio, vorrei portare In-cantus a
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