Il veggente Marx aveva capito tutto della sinistra

Il veggente Marx aveva capito tutto della sinistra

Letto l’articolo di Giordano Bruno Guerri «Il comunismo scomparso dalle librerie» mi chiedo se non sia un bene che Marx e i testi del marxismo siano spariti dagli scaffali delle librerie e delle biblioteche private. Nei miei non c’è mai entrato, nemmeno di straforo. È stato un cattivo maestro e da lui non c’è niente da imparare. Il crollo del muro di Berlino insegna.


Lei sa come la penso, caro Bastianini. Nessun libro (oh, non sto parlando dei romanzi. Per quel genere è doveroso mettere i paletti. Macché paletti, paloni. Cavalli di frisia, barriere anti intrusioni. Prima che un Barrico o un Cammilleri superino la soglia di casa mia deve venir giù il Colosseo. O il Monte Rosa), neanche se scritto da chi riteniamo un cattivo maestro, deve essere considerato tabù.
I tabù lasciamoli ai Tabucchi. Per venire a Marx, non dico i quattro tomi del Capitale, tremendissimo e ostico mattone affrontato, da quei pochissimi che l’hanno fatto, forse nel compendio di Carlo Cafiero (pubblicato, il nome le dovrebbe dir qualcosa, dall’editore Bignami), ma Il Manifesto del Partito Comunista andava e va letto. Facendolo si capiscono tante cose, ad esempio perché gli eredi del comunismo – l’intera sinistra – preferiscono che sia dimenticato. In quello scritto Carlo Marx demolisce infatti tutto quello che la sinistra è oggi, tutto ma proprio tutto. Un saggio? L’attacco al «vile piagnisteo» dei falsi socialismi, degli «economisti, dei filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni della classe operaia, gli organizzatori della beneficenza, i membri delle società protettrici degli animali, i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori». Oppure ai militanti del «socialismo o comunismo critico-utopistici», quelli che «inseguono un ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto uguagliare. Gli owenisti, i fourieristi, sempre in cerca di una scienza sociale e di una legge sociale».
A quelli che fanno appelli per aprire, «con piccoli e inani esperimenti, la strada al nuovo vangelo sociale colla potenza dell’esempio», che sognano ancora «la realizzazione delle utopie sociali, la formazione di falansteri, la fondazione di colonie in patria, l’edificazione di una piccola Icaria e per la costruzione di tutti quei castelli in aria fanno appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi». Tutta gente che si distingue «per fede fanatica e superstiziosa nella loro scienza sociale».


Non sembra, caro Bastianini, il ritratto dei Veltroni, dei Prodi, delle Bindi, dei Fassino, degli «impegnati nel sociale», dei multiculturalisti, delle Ong, delle Onlus, dei terzomondisti in servizio permanente effettivo, degli apostoli dell’«I care», dell’ecologismo pecoraroscaniesco nutrito dalla Philosophie de la misère di Prudhon, del sociologismo a forza nove con tutti i suoi «percorsi», i suoi «vissuto», i suoi «momenti di dialogo e/o di riflessione», del lagnoso bischerume pietistico sulle nigeriane che battono i marciapiedi, del «siamo persone perbene» slogan elettorale dell’Unione, del giulivo girotondismo, della turgida e ventosa retorica della società civile?
Paolo Granzotto

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