Velleità dell’antipolitica

I nodi tornati d’attualità in questi giorni - la «crisi della politica» e il «partito della borghesia» - sono vecchi almeno quanto la Repubblica. Fin dall’Uomo qualunque, nella società italiana è ricorrente il sentimento avverso al superpotere dei partiti che soffoca le istituzioni, l’economia e la cultura. E fin dal tramonto delle forze liberal-democratiche sancito nel 1946 dal successo della Dc e del Pci, l’Italia ha sofferto dell’assenza di un partito della borghesia, vale a dire di un movimento modernizzatore di stampo europeo, capace di compiere quella rivoluzione liberale di cui la settima potenza economica del mondo avrebbe avuto bisogno.
Perciò nessuno può sorprendersi delle analisi circostanziate del presidente della Confindustria e delle roventi denunzie contenute nel libro La casta. Ma la vera questione dolente per tutti comincia proprio là dove finiscono queste opportune notazioni, non a caso accolte con interesse dagli italiani. Come si fa a smantellare il potere pervasivo che la casta partitocratica detiene nella vecchia politica e nell’elefantiaco sistema pubblico? E come può inverarsi quel movimento liberale capace di rivoltare, esso sì, come un calzino l’Italia corporativa, consociativa e conservatrice?
Come per il barone di Münchhausen, il problema irrisolto sta nel modo in cui ci si può sollevare dallo stagno con le nostre stesse mani. Il volano che può - e deve - mettere in moto la trasformazione non può che venire dal processo democratico a cominciare dal voto. L’idea di un partito della borghesia liberale, o degli imprenditori innovativi, che nasce fuori dalla politica è, in Italia, altrettanto velleitario dell’idea che affida le sorti progressive della nazione alla classe operaia. Quanto poi alla scossa politica innescata dall’esterno, ad esempio dal sistema giudiziario, ne sappiamo abbastanza per calcolare i danni che ne sono derivati con la distruzione della prima Repubblica.
Tra i tanti dilemmi da affrontare nel sistema politico, il principale riguarda la scelta tra il mantenimento del bipolarismo e la convergenza al centro con il taglio delle estreme. Ciascuna delle due opzioni presenta oggi vantaggi e svantaggi. Per un verso il bipolarismo è stato negli anni dell’immobilismo istituzionale, l’unica conquista che ha rafforzato la democrazia. La possibilità di ricambio delle classi dirigenti impedisce la continuità del potere che sempre porta con sé inefficienza e corruzione. Ma i grandi schieramenti inclusivi di tutte le forze anche estreme, a destra come a sinistra, trasferiscono i veti paralizzanti da fuori a dentro le alleanze, specialmente quando governano.


Per un altro verso la convergenza al centro delle migliori esperienze ed energie dei due poli con l’estromissione degli estremi potrebbe sì produrre una maggiore capacità di decisione e innovazione, ma rischierebbe di riprodurre quel perenne trasformismo che ha impedito all’Italia di essere in pieno una nazione dell’Occidente liberaldemocratico.
Massimo Teodori
m.teodori@mclink.it

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